di Bruno Perazzolo e Emanuela Gervasini

Regia di Pawo Choyning Dorji, genere Drammatico, – Bhutan, 2019, durata 110 minuti. Un film che, a tutta prima, può sembrare scontato. Il classico incontro tra “primitivi animisti – buddhisti”, e un “civilizzato” che poi passa dalla loro parte: dalla parte dei “dimenticati dalla storia”. Un racconto, simil “Balla con i lupi”, già visto tante volte. Ma allora come spiegare l’emozione e il rinnovato apprezzamento dello spettatore medio per un tale déjà-vu? Certo la regia è ottima, la fotografia e i paesaggi Himalayani del Bhutan sono affascinanti, ma tutto ciò non basta a giustificare un giudizio positivo che resterebbe comunque troppo elevato. Per colmare la differenza credo possano venirci in soccorso una somma di paradossi assolutamente plausibili e, nel contesto in questione, affatto originali. In primis la conversione di un maestro (che forse, nella sua vita precedente, era uno Yak, l’animale totemico del villaggio) che, chiamato ad insegnare, apprende (come dovrebbe pressappoco accadere in ogni autentico rapporto docente / discente)  molto più dei suoi allievi. In secondo luogo la dialettica del “Salvatore – Salvato”. La comunità che il maestro, il giovane Ugyen, incontra è una comunità in crisi. Il suo capo ha cessato di cantare il “mito del suo popolo”, la scuola è polverosa e disadorna e nessun insegnante, Ugyen compreso, sembra disposto a fare da “trait d’union tra il presente e il futuro dei suoi abitanti”  trasferendosi in un luogo che si trova ad una tale altitudine (4800 metri) e presenta una sobrietà talmente spartana da apparire inospitale. Sennonchè anche il maestro è in crisi. Vorrebbe fare altro della sua vita. Lo attirano il grande mondo australiano, la modernità, la libertà, la mobilità, il successo, la città, ma si ritrova, suo malgrado, precipitato in una sorta di tirocinio attorniato da gente certamente rispettosa e umile, ma anche materialmente poverissima. Ugyen, il maestro, ha però un “cuore puro” di cui è inconsapevole. Un cuore capace di risuonare al bello. Da qui lo stupore, la meraviglia e la conversione profetica; da qui la salvezza di una comunità – rappresentata dal ritorno dello Yak impersonato dell’insegnante – tramite la quale lo stesso salvatore, il maestro, sarà salvato. Ugyen, alla fine, realizzerà il suo sogno australiano e la pellicola non ci dice se farà mai ritorno al “villaggio che si trova alla fine del mondo”. Cesserà però di intrattenere, a pagamento, il pubblico alieno del piano bar di Sydney in cui si esibisce per cantare il canto dell’Himalaya e testimoniare così, a tutti noi, che quella comunità del Bhutan non ha cessato di vivere. Quel villaggio sperduto in capo al mondo continua ad esistere come una possibile opzione nascosta nel cuori puri di tanti giovani e di tutti gli uomini che risuonano alla bellezza.

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