Alcune riflessioni sul bestseller, arguto e provocatorio, di un sofisticato “falso profeta

di Bruno Perazzolo

Nel 2013 Graeber scrive, su richiesta della rivista radicale “Strike”, un articolo intitolato “sul fenomeno dei lavori del cavolo”. Inaspettatamente il testo – che parte dal fallimento della profezia keynesiana delle 15 ore di lavoro settimanali nel 2000, per arrivare ad ipotizzare l’attuale, diffusa insoddisfazione per il lavoro retribuito, ritenuto spesso inutile o dannoso – assume carattere virale. Insomma, un notevole successo fatto di denunce, per lo più anonime, al limite della formazione di un vero e proprio movimento politico. Al riguardo, per dare un’idea del dato emerso e, successivamente, confermato da ulteriori e più accurate ricerche, suggerisco l’ascolto del breve servizio di Paolo Pagliaro, “otto e mezzo del 6 marzo ‘24” in cui si accenna, sia pure marginalmente, all’enorme rilievo del problema quasi del tutto sottaciuto sia in Italia sia, pressappoco, nel resto del mondo. Per fare qualche esempio di “lavoro del cavolo” (il testo, di esempi, ne riporta in abbondanza), citerei la categoria dei “tirapiedi”, ossia lavoratori il cui compito esclusivo è quello di far sentire e/o apparire importante qualcun altro. Chi lavora nella scuola dovrebbe, poi, conoscere bene il tipo del “barracaselle”, impegnato a compilare moduli e a redigere relazioni che mai nessuno leggerà. Oppure, l’altro caso del “supervisore”, occupato in ruoli la cui unica funzione è quella di dare l’impressione che l’organizzazione aziendale svolga controlli che, in realtà, non svolge affatto. Nel settore del marketing e della finanza si incontrano, da ultimo, i casi più frequenti ed eclatanti di lavori del tutto dannosi che, mentre procurano una certa utilità a qualcuno, appioppano dispiaceri di gran lunga maggiori alle loro vittime. Un film che può aiutare a comprendere bene il fenomeno è quello di Paolo Virzì, 2008, “tutta la vita davanti”.

Graeber, opportunamente, indica gli effetti psicologici, sociali e politici dei “lavori del cavolo”. In sintesi, si tratta della rabbia, della frustrazione, dello stress, dell’ infelicità e del sentimento di solitudine, alienazione, impotenza e abbandono che, in genere, opprime il lavoratore e, frequentemente, anche chi gli sta intorno.  Un cocktail malefico così ben assortito che neppure i “lavori di merda” (lavori socialmente tanto indispensabili quanto malpagati e poco apprezzati, quali, ad esempio, quelli della pulizia di bagni e/o di altri spazi pubblici) sembrerebbero in grado di assicurare. In altre parole, si tratta del “tipico disastro umano” che sempre si accompagna all’”uso improprio” dei talenti cruciali dei quali la nostra specie è dotata.  L’aver fatto emergere questo aspetto critico del lavoro nelle società capitalistiche e non solo, credo costituisca la prima qualità che ben spiega il meritato successo dell’opera di Graeber. 

Una seconda qualità del bestseller mi pare si possa riscontrare nell’analisi delle cause del fenomeno. Per ragioni di spazio, mi soffermerò solo sulle principali, ovvero sull’affermarsi di una sorta di “nuovo medioevo” che, facendo leva sull’etica del “lavoro fine a sé stesso”, sostituisce la figura del Manager a quella dell’antico Signore feudale. La nuova forma di comando, ovviamente, presenta, però, alcune, notevoli differenze. In primis il controllo e l’impatto sul lavoro, attualmente assai più diffuso e pregnante rispetto alle economie premoderne e, persino, al più recente, grande capitalismo familiare. Al riguardo, la svolta decisiva viene fatta risalire da Graeber alla crescita del settore dei servizi e, a partire dagli anni ’70 circa, alla finanziarizzazione dell’economia incentrata su oligopoli e monopoli che ha reso universalmente più precario il lavoro essenzialmente rendendone del tutto evanescenti le catene di comando.  Il risultato è stato quello di “incentivare lo sfruttamento” di chi, alla base della gerarchia produttiva, svolge lavori innegabilmente utili, a tutto vantaggio di un ceto sempre più cospicuo di persone, che, come accadeva nella società di corte francese tra ‘500 e ‘600, si riprovano spesso a fare lavori senza senso o del tutto dannosi.  

La terza qualità del testo che più mi ha positivamente colpito è quella che Graeber trae direttamente dai dati raccolti, ossia la differenza tra lavori retribuiti senza senso e lavori che, sia che siano retribuiti sia che non lo siano, presentano una chiara utilità sociale. I dati dimostrano distintamente come le persone che lamentano di svolgere un lavoro retribuito senza senso, non intendano l’eventuale emancipazione da quest’ultimo nell’ottica del puro ozio. Al contrario, aspirano per lo più a svolgere un lavoro che abbia un evidente valore sociale. In altre parole, dalle interviste ecc. salta fuori che, assai più che la liberazione dal lavoro tout court, le persone ambiscono a svolgere un lavoro riconosciuto dal prossimo come socialmente valido. Da qui, una fondamentale conseguenza: anche nel caso in cui l’innovazione tecnologica o altri fattori dovessero comportare una forte contrazione del lavoro retribuito, ciò non significherebbe affatto la completa fine del lavoro, bensì la sola sostituzione di una parte del “lavoro pagato” con altro tempo di lavoro incentrato, questa volta, maggiormente sulle relazioni comunitarie piuttosto che sulla domanda di mercato. In altre parole, potremmo avere a che fare con un trasferimento di risorse epocale per mezzo del quale gli uomini potrebbero tornare a fare ciò che, soprattutto con il proprio lavoro gelosamente custodito, hanno prevalentemente sempre fatto nella storia millenaria di Homo Sapiens, ovvero dedicarsi a ciò che, più di ogni altra cosa, li collega alla vita: la cura del prossimo e dell’ambiente abitato.

Infine, vengo alla parte del testo, cruciale dal punto di vista del suo autore, che mi convince meno per non dire che non mi convince affatto. Al termine del suo pamphlet, Graeber si interroga su come contrastare i lavori senza senso. La risposta che ci propone è un vero colpo di “bacchetta magica”, un classico esempio di “sessantottina “fantasia al potere”: il Reddito Universale. Cioè, un reddito, sufficiente a sostenere dignitosamente la vita di una persona, elargito a tutti incondizionatamente, ai milionari come ai poveracci, ai cittadini come ai soli residenti maggiorenni. Che si tratti di risposta apparentemente appropriata non v’è dubbio dal momento che, potendosene liberare grazie al Reddito Universale, chiunque lamenti di fare un “lavoro del cavolo”, potrà starsene tranquillamente a casa dedicandosi a tutto ciò che, della vita, letteralmente meglio preferisce. E qui, per farsi capire meglio, Graeber utilizza il caso di chi, finalmente sottratto alle incombenze della bolletta e dell’affitto da pagare, decide legittimamente di darsi, full time, alle pratiche BDSM (acronimo che sta per  bondage, dominazione, sadismo e masochismo). L’argomento sembra convincente! Resta però un problema che, suppongo, possa risultare del tutto inconsistente a chi crede nelle bacchette magiche e nel superiore potere della fantasia: com’è possibile realizzare il Reddito Universale? E poi, anche posto che si possa, è davvero auspicabile in considerazione dei prevedibili effetti che avrebbe, se non proprio nell’immediato, nel medio – lungo periodo? Naturalmente, stante l’ideologia economica prevalente nel nostro mondo, occidentale e capitalista, la notevole improbabilità finanziaria di una tale Istituzione non è sfuggita ai tanti che, con maggiore rispetto per la realtà, hanno posto la questione di dove trovare i soldi per sostenere una spesa che si annuncia del tutto “fuori misura”. A costoro, non è poi neppure sfuggito il rompicapo, altrettanto serio, dei “lavori di merda”. Potendo starsene a casa a fare cose più gratificanti, chi mai si “sacrificherà” servendo ai tavoli di una pizzeria ecc.?

Concludendo questo articolo, però, io vorrei andare oltre l’ideologia economica dominante e provare ad abbozzare, da un’ottica meno usuale, un’altra critica al Reddito Universale. Opportunamente Graeber professa la propria fede anarchica che, ad essere sinceri, sia pure spesso inconsapevolmente, pare un fatto piuttosto comune dalle nostre parti e, soprattutto, tra quelli che sostengono idee del genere. Pertanto, in linea con la propria proposta, Graeber, nel Reddito Universale, intravvede, di fatto, una specie di ultimo stadio della storia dell’umanità, che, similmente all’utopia comunista, in forza della tecnologia, assicurerebbe a tutti, se non proprio la libertà dal bisogno, la possibilità di vivere da INDIVIDUI. In altre parole, ecco servita sul piatto, ad opera del Reddito Universale, l’anarchia. Ma ecco, anche, sorgere un paradosso. Per racimolare i soldi che servono sembra abbastanza difficile disfarsi dello Stato che, pure, Graeber, da anarchico coerente, vorrebbe venisse meno. Di più, per convincere i ricchi a scucire così tanto danaro, bisognerebbe proprio avere uno Stato non solo potente, ma anche molto “oppressivo dei ricchi”; cosa che, in particolare negli ultimi decenni, si è rivelata un’autentica chimera. Pertanto, a questo punto del discorso, penso si comprenda la sagacia del Banchiere Anarchico di Pessoa che tacciava gli anarchici come Graeber, come minimo di ingenuità portandosi poi, di tanto in tanto, molto oltre nel suo disprezzo. Il ragionamento del Banchiere anarchico è semplicissimo. L’anarchico ingenuo, per liberarsi delle “finzioni sociali che lo incatenano”, altro non fa che creare “tirannia di tipo nuovo”, ancora più disgustosa per via della sua stupidità. Sennonché, rispetto a questa critica sprezzante, una via d’uscita sembrerebbe ancora esserci per l’anarchico ingenuo: quella di pensare, in assenza di uno Stato capace di imporli, ad un consenso sociale pressochè unanime sia sul reddito universale sia sulla pressione fiscale necessaria a sostenerlo. Ma anche qui, ecco farsi avanti un paradosso. Standard sociali tanto solidi richiederebbero una forte condivisione di valori che solo una comunità assai robusta può generare. Ma una comunità del genere, purtroppo, non può prescindere da una sorta di legge ferrea: chi riceve in dono deve, prima o poi, a sua volta, restituire qualcosa in base a standard condivisi (regole morali). Il Reddito Universale,  contrastando questa regola, anziché rafforzare indebolisce ulteriormente la comunità facendo, così, venir meno la  possibilità che una tale istituzione, anziché sugli apparati repressivi dello Stato, possa confidare su una larga, spontanea adesione dei cittadini.

Morale! Come spesso accade ai “rivoluzionari radicali” di ogni tempo e, a maggior ragione, ai tanti che, attualmente, si affollano sulla scena globale, ad un’analisi arguta, segue una profezia disastrosa. In altri termini, se la “diagnosi” convince, la “terapia” promette di essere peggiore del male che vorrebbe curare.


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1 commento

  1. Sono d’accordo. Il R.U. é impossibile perché se ci fosse, chiunque si sentirebbe libero di fare ciò che vuole – non avendo più obblighi verso gli altri, siccome può soddisfare i suoi bisogni con il r. U. che comunque gli spetta- dunque non ci sarebbero regole sociali (oltre al fatto che non ci sarebbero i guadagni necessari), e senza regole sociali é impossibile imporre il reddito universale.
    PS. Sarebbe utile un esempio quando parli del “nuovo medioevo”, infatti non capisco bene le dinamiche di sfruttamento a cui accenni.

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