di Bruno Perazzolo

Nel 2013 Graeber scrive, su richiesta della rivista radicale “Strike”, un articolo intitolato “sul fenomeno dei lavori del cavolo”. Inaspettatamente il testo – che parte dal fallimento della profezia keynesiana delle 15 ore di lavoro settimanali nel 2000, per arrivare ad ipotizzare l’attuale, diffusa insoddisfazione per il lavoro retribuito, ritenuto spesso inutile o dannoso – assume carattere virale. Insomma, un notevole successo fatto di denunce, per lo più anonime, al limite della formazione di un vero e proprio movimento politico. …
Per fare qualche esempio di “lavoro del cavolo” (il testo, di esempi, ne riporta in abbondanza), citerei la categoria dei “tirapiedi”, ossia lavoratori il cui compito esclusivo è quello di far sentire e/o apparire importante qualcun altro. Chi lavora nella scuola dovrebbe, poi, conoscere bene il tipo del “barracaselle”, impegnato a compilare moduli e a redigere relazioni che mai nessuno leggerà. Oppure, l’altro caso del “supervisore”, occupato in ruoli la cui unica funzione è quella di dare l’impressione che l’organizzazione aziendale svolga controlli che, in realtà, non svolge affatto. Nel settore del marketing e della finanza si incontrano, da ultimo, i casi più frequenti ed eclatanti di lavori del tutto dannosi che, mentre procurano una certa utilità a qualcuno, appioppano dispiaceri di gran lunga maggiori alle loro vittime. Un film che può aiutare a comprendere bene il fenomeno è quello di Paolo Virzì, 2008, “tutta la vita davanti”.

Continua