“Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole”
Pier Paolo Pasolini
di Bruno Perazzolo
Al termine di una cena tra un potente banchiere e il suo più intimo amico, la conversazione langue. Per ravvivarla l’amico abbozza un argomento a caso: “Glielo giuro, giorni fa qualcuno mi ha detto che lei, una volta, era anarchico”. Inizia da qui una conversazione thriller – di fatto un monologo simile ad una dimostrazione matematica – che tiene il lettore incollato al testo. Il banchiere, oltre a confermare di essere stato anarchico, sostiene di esserlo ancora e che, proprio in forza della sua fede anarchica, è diventato un banchiere. A differenza dei suoi vecchi compagni mentecatti, rimasti a fare attentati, il banchiere confessa all’amico, sempre più confuso e sbigottito, di ritenersi anarchico non solo in teoria, ma anche in pratica proprio in virtù della sua professione speculativo – finanziaria.
Negli anni ’60 i giovani, soprattutto studenti, gridavano nelle piazze “vietato vietare”. L’anarchia, intesa in senso lato, usciva così dai ristretti circoli operai e intellettuali-borghesi, per divenire fenomeno di massa dapprima nel costume e poi, negli anni ’80, con la deregulation dei mercati e la globalizzazione, anche nelle attività economiche. Nel 2007, con la crisi dei subprime e la paurosa recessione mondiale che ne seguirà, la profezia di Pessoa si invererà: i “banchieri anarchici”, arricchitisi oltre misura con metodi “innocentemente ripugnanti”, troveranno il modo di arricchirsi ancora di più senza violare alcuna legge sancita dallo stato o della coscienza (si veda il film – documentario “Inside Job”). La “parabola della libertà” si concludeva come presagito da Pier Paolo Pasolini: “nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole”: all’anarchia di pochi corrisponde la schiavitù di molti. Dopo il 1922, anno della sua pubblicazione, il dramma di Pessoa (un libretto di circa 50 – 60 pagine) è stato tradotto in diverse rappresentazioni teatrali e, recentemente, anche cinematografiche. In genere il “linguaggio non verbale” degli attori e delle scenografie aiuta la comprensione dello spettatore. E’, questo, sicuramente il caso del film “il banchiere anarchico”, regia di Giulio Base, con Giulio Base e Paolo Fosso, genere drammatico, Italia, 2018, durata 82 minuti.
La pellicola non concede molto al “grande pubblico”. Questo, probabilmente, è il suo limite maggiore che ne spiega la scarsa diffusione commerciale. Quanto al resto, l’estrema sobrietà del racconto e del contesto in cui si svolge, un’unica stanza in tutto simile al palcoscenico di un teatro, paradossalmente forniscono una descrizione più ricca di importanti dettagli sulla personalità del banchiere rispetto al semplice testo scritto. Il film si può vedere su Rai Play gratuitamente.
Molto suggestiva, e realistica, l’idea che la globalizzazione rappresenti una forma di anarchia
Grazie Bruno per avermi ricordato questo film (che avevo in programma ma non ancora visto).
Un’architettura filmica geniale, come le argomentazioni snocciolate, che “sembrano”perfettamente coerenti, quanto lontane dal senso convenzionale. Mi ha fatto venire in mente Orwell: la condizione ideale e tanto rincorsa, come la libertà, o é irraggiungibile o finisce per portarti al punto di partenza, di cui volevi liberarti. Un’apoteosi di paradossi (peraltro non lontani dal vero): l’anarchia per essere efficace dovrebbe essere condivisa da tutti, ma separatamente, ognuno deve imparare a cavarsela da sé; appena si lavora insieme si produce tirannia, o dipendenza da qualcosa o da qualcuno (perché ognuno ti porta dalla sua parte -perdita della libertà) anche aiutare un altro diventa tirannia (perché oltre a considerarlo incapace, lo fai dipendere da te); la “dittatura rivoluzionaria” come passaggio obbligato per transitare dalla tirannia alla libertà, vera ossessione dell’anarchico … e tanto altro. L’opera di Pessoa, da cui il film é tratto, andrebbe letta e riletta soffermandosi ad ogni frase.
Mi é molta piaciuta una frase (mi pare all’inizio del racconto) quando definisce la libertà come un vivere secondo natura, e già questo basterebbe a convincerci quanto sia importante il rispetto della natura, di cui anche gli altri sono parte, sia che scegliamo di vivere in mezzo a loro collaborando, sia che viviamo in solitudine.
Grazie dei commenti sui quali penso valga la pena ritornare per un ulteriore approfondimento che mi riprometto di fare a breve partendo dall’importante articolo di Daniela e relativi commenti su “individualità e collettività”