Benedetta Nicoli

Tempo fa mi è capitato di intervistare degli scienziati, fisici e biologi, e di chiedere loro se avessero mai vissuto un’esperienza spirituale. Qualcuno di voi resterà forse sorpreso nell’apprendere che non solo diversi dei miei interlocutori hanno risposto di sì – e non senza un certo trasporto, ma hanno anche raccontato di come spesso sia stata proprio la scienza a incoraggiare in loro questo tipo di esperienze. Per esempio, mostrando la connessione tra tutti gli esseri viventi, l’armonia complessiva del cosmo, le “forze all’opera” nell’universo, il “mistero della vita”, per citare alcune espressioni degli intervistati. Questi particolari incontri con la realtà suscitavano in questi scienziati meraviglia, stupore, talvolta anche inquietudine, miste a un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, e questi sentimenti andavano a costituire quel nucleo più profondo che rendeva non solo la loro professione, ma anche la loro vita piena di significato.

Se persino uomini e donne abituati ad affidarsi a un pensiero razionale e alle evidenze empiriche ne riportano la testimonianza, forse questi eventi sono più diffusi di quanto pensiamo – persino in un’epoca che, sotto molti aspetti, possiamo definire disincantata.

Queste situazioni, in primo luogo, dicono di una particolare modalità che l’essere umano ha di rapportarsi al mondo – naturale, ma anche umano e sociale. Una modalità in cui il mondo non è sperimentato come inanimato, muto, ma come pieno di significatiche parlano all’uomo, hanno qualcosa da dirgli. In questo senso, ci troviamo di fronte a una relazione di “risonanza”, un legame in cui il soggetto umano avverte di non essere solo al mondo e che non solo ha compagnia, ma ha anche una casa: un luogo a cui appartiene che è profondamente significativo per lui e che lo supera in termini di grandezza.

Se con il termine “disincanto” è stata definita quella modalità di relazione con il mondo – e con gli altri – strumentale, fredda e distaccata che ha accompagnato il progetto moderno di progressiva conquista dell’ambiente circostante da parte dell’azione umana, possiamo invece chiamare “incanto” quella modalità di relazione che emerge dall’esperienza di un incontro inaspettato, impossibile da pianificare a tavolino, da gestire nel suo svolgersi e da prevedere nei suoi esiti.

L’incanto offre alla persona una riserva di senso che motiva, ne orienta l’azione e accompagna la sua intera esistenza. Sul piano sociale, il legame con un orizzonte di senso indisponibile ma al contempo risonante con l’umano potrebbe incoraggiare e orientare azioni non basate esclusivamente su criteri tecnici, i quali si rivelano spesso insufficienti – come emerge, per esempio, dalle difficoltà che i governi riscontrano nell’inquadrare i conflitti in corso e nel trovare dei tentativi di risoluzione adeguati.

L’incanto porta inoltre con sé un certo ordine etico-morale, perché ciò che sfugge continuamente al controllo sottolinea i limiti costitutivi dell’azione umana, ricordando l’esistenza di una dimensione di mistero e, quando l’incanto è espresso nella sua forma più compiuta, di sacralità. L’incanto può quindi portare dei benefici alle collettività, favorendo comportamenti più sostenibili, relazioni umane basate sulla reciproca solidarietà anziché strumentali e criteri di valutazione normativa per dirimere i dilemmi etici che lo sviluppo scientifico e tecnologico di volta in volta pongono nella sfera pubblica.

Infine, dall’incontro con l’inaspettato e dallo scambio reciproco tra il sé e il mondo può emergere la novità: l’incanto possiede ciò che Hannah Arendt ha definito un “potenziale di natalità”. E in effetti è spesso dalla meraviglia, da un appassionamento profondo, dalle grandi domande suscitate dalla contemplazione dell’universo che sono nate anche alcune importanti scoperte scientifiche. Di fronte all’ “umanesimo esclusivo individualistico basato sulla convinzione che tutto sia comprensibile e  controllabile dall’umano mediante la razionalità e gli apparati tecnoscientifici, l’alternativa suggerita dall’incanto è quella, invece, di un umanesimo “sbilanciato” che apre un orizzonte di pienezza alla luce del quale è possibile interpretare l’esperienza umana e sociale. Essa può costituire una risposta alle fratture, alla disintegrazione e all’assenza di significato con cui le società contemporanee fondate esclusivamente su meccanismi razionali e immanenti si trovano ora a confrontarsi, a fronte, peraltro, di un succedersi di crisi – economiche, politiche, civili – sempre più accelerato.

Ndr Benedetta Nicoli, per quanti fossero interessati ad approfondire l’argomento trattato in questo articolo, ci ha fornito una versione più completa corredata da una bibliografia essenziale.

5 commenti

  1. Grazie per l’articolo. È un tema su cui ho pensato molto anch’io. L’incanto permette di approcciarsi al mondo non solo a livello tecnico-oggettivo, che relegherebbe ogni cosa a essere “anonima” e superflua. Permette di intuire che invece ogni cosa ha un riferimento in un punto unico per tutte.
    L’incanto apre a un senso (ovviamente indicibile) che ci salva dalla contingenza: le cose non semplicemente “sono lì”, ma sono “collocate”. Noi stessi lo siamo, il mondo non è una giustapposizione casuale di particelle, ma come hai ben detto, una “casa”.

    1. Grazie Sara, credo che il tuo commento colga con molta chiarezza a che cosa porta l’incanto. Anche se fosse vero che la modalità di rapportarsi alle cose, agli altri, al mondo intero oggi dominante è quella tecnica-oggettiva, esiste comunque un’alternativa, che va coltivata perché contiene davvero una grande ricchezza

  2. Author

    Che dire! In questo articolo mi riconosco completamente. Un’esperienza, la mia, iniziata quando avevo 27 anni circa. Oramai lontano dalla religione è stata la biologia, la teoria dei sistemi, in breve un’ottica contemplativa della scienza a farmi tornare alla fede, questa volta tramite la storia delle religioni e, in particolare, la religiosità cosmica / panteistica. Poi altri incontri, l’alternanza scuola lavoro, l’approfondimento della sociologia di Durkheim e Tonnies, la critica della modernità e dell’individualismo liberale che credo, come dice bene l’articolo, sta al fondamento del disincanto e di un approccio al pensiero scientifico di impronta baconiana, ovvero esclusivamente orientato agli sviluppi tecnologico .- strumentali. Grazie

    1. Ti ringrazio, Bruno, per la tua condivisione così personale. Conferma che la scienza è davvero piena di opportunità – e non solo per gli scienziati. Mi viene da pensare che sarebbe bello se, un giorno, anche a livello istituzionale la scienza maturasse questa consapevolezza, facendo della meraviglia e della tensione verso il mistero il proprio fondamento, in modo esplicito e “compatto”. Chissà…

  3. Possiamo dire che l’incanto è tutto ciò che in natura vibra, emettendo suoni, non sempre percettibili all’orecchio umano, di tutto ciò che in natura si colora per effetto della luce, di tutto ciò che avvolto dal mistero, non tutti vedono e di tutto ciò che comunque, anche se non percepito, agisce nell’interesse umano, in quanto energia avvolgente.
    Il venir meno di questa fantastica e perfetta armonia, provoca inevitabilmente “una caduta” dando luogo al disincanto che definirei una spaccatura tra quello che ci è stato offerto e l’incapacità o meglio la non volontà di capire, apprezzare e di conseguenza conservare, per meglio dire valorizzare. Questa insanabile frattura è Il risultato di quello a cui spesso assistiamo e viviamo quotidianamente, si corre poi ai ripari, ma nel frattempo quanto abbiamo perduto?
    L’incanto si offre, non si sottopone al disincanto per convenienza o per opportunità di quei soggetti umani che pensano solo a soddisfare il proprio ego. L’incanto ha sempre e comunque la meglio, è fonte inesauribile di energia, di forza. L’incanto mutera’, non sparirà e sarà sempre e comunque fonte di vita. Donata

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