di Bruno Perazzolo
Richard Sennett, nel suo libro “l’uomo flessibile”, sostiene che il “capitalismo multinazionale”, negli ultimi 40 anni circa, ha cambiato pelle. Le nuove élite non ambiscono più al controllo gerarchico della società, non dettano più procedure, non mirano ad imporre stili di vita. Esigono, invece, che siano gli altri, le singole persone, a trovare il modo di adattarsi ai loro continui cambiamenti, ad un potere che si fa sempre più invasivo e, nel medesimo tempo, meno trasparente e meno palpabile. Viene da qui, secondo Sennett, il nuovo vangelo della flessibilità, della mobilità, dei legami deboli, del cogliere l’opportunità vivendo nel breve periodo.
“Tutto in un giorno” è un film “mediano”, tra Ken Loach e i fratelli Dardenne. Dal primo prende la crudezza del racconto mentre dai secondi assume il miracolo di flebili segni di speranza. Sullo sfondo il dramma delle famiglie sfrattate che, nella “civile” Spagna (ma nel nostro paese siamo pressappoco sugli stessi numeri), come si evince dai titoli di coda, sono circa 100 – 140 al giorno. Su questa scena si stagliano storie, condotte mirabilmente da attori e regia, capaci di farci toccare con mano la solitudine, l’ansia, la paura, la concitazione, il disorientamento delle persone che rischiano di essere buttate fuori casa da un momento all’altro. Il miracolo, invece, viene da quella che si potrebbe, a buon diritto, definire “resilienza comunitaria”. A fronte di uno Stato assente o addirittura “nemico” e ad un mercato implacabile popolato da banche, fondi di investimento anonimi e moduli ingannevoli, l’umano riaffiora ritrovando nella condivisione, nella dimensione sociale, la forza di sopravvivere con dignità.
Regia di Juan Diego Botto, con Penélope Cruz, Luis Tosar, Font García, Adelfa Calvo, Christian Checa, genere drammatico, Spagna – Gran Bretagna 2022, durata 105 minuti. Appena uscito lo si può vedere, al momento, solo nelle sale cinematografiche.