Questo saggio breve, salvo qualche piccolo aggiornamento, è stato scritto nel marzo del 2019. Tuttavia, nel confronto tra individualismo, comunitarismo e beni comuni, credo resti, in quanto riflessione incentrata su un caso concreto, attuale e, spero, anche interessante.

di Bruno Perazzolo

Premessa

Le riflessioni, di seguito rappresentate, sono fortemente legate all’esperienza maturata in un contesto eminentemente locale quale quello del Comune di Biandronno. Poiché, come succede praticamente sempre, il piccolo riflette il grande, al fine di evitare il rischio del provincialismo è necessario ricondurre le proprie ipotesi ad una visione più ampia.

Quello che il bruco chiama “fine del mondo”, il resto del mondo lo chiama farfalla.
(Lao Tzu)

La cura dei beni comuni: il lago di Varese.

In economia un bene comune si dice non escludibile e rivale, a differenza dei beni normalmente acquistati sul mercato che sono escludibili e rivali. Tradotto: mentre i primi sono accessibili a tutti i secondi no. Per il resto sono, entrambi, rivali, cioè, scarsi: se qualcuno li utilizza ne restano di meno per gli altri. Da qui quella che alcuni hanno apostrofato come “la tragedia dei beni comuni”. Beni, questi ultimi, destinati alla distruzione per esaurimento laddove, a fronte del bene comune, si pone non una comunità, ma, come vorrebbe l’economia politica dominante, tanti individui mossi unicamente dall’interesse personale. Il motivo di un tale sviluppo è molto semplice: l’utilità che un individuo trae dall’impiego del bene comune risulta, di regola, molto superiore al costo che immediatamente e/o direttamente sopporta in quanto la maggior parte dell’onere (del suo effettivo costo sociale complessivo) viene spalmata su tutti gli altri individui. Ne deriva un effetto tipico dei sistemi complessi: se ciascuna parte si comporta razionalmente, cioè in base alla propria convenienza egoistica, il risultato sarà una catastrofe collettiva, esattamente come nel caso delle partenze intelligenti o del risparmio delle famiglie in una situazione di crisi del mercato.

La storia del lago di Varese rispecchia esattamente questa logica universale. È stato l’indebolimento della comunità locale a sancire la morte del lago. Sedotti dal miraggio del consumo illimitato e della crescita infinita del PIL, le genti del posto – e quelle accorse da più lontano nella “terra promessa” dell’industria del bianco di Cassinetta di Biandronno – si sono dimenticate delle loro radici e si sono lanciate all’inseguimento del nuovo sogno modernista. Un sogno per il quale c’era da pagare un prezzo: la morte del lago. Il lago è divenuto, quindi, una specie discarica prima industriale e poi civile. Metalli pesanti e fosforo si sono depositati copiosamente sul fondo e tutti ricordiamo le terribili morie di pesci e l’insopportabile puzza. Il lago insomma era morto. Ma rimaneva il sogno di un’economia che prometteva la felicità e un progresso senza soluzione di continuità. L’accrescimento della ricchezza individuale a patto della rinuncia alla ricchezza collettiva, accessibile a tutti e non esclusiva, propria dei beni comuni.  

Morie di pesci e puzza hanno attestato per anni la morte del lago. Sennonché, in natura, la morte non è mai illimitata e/o definitiva. L’apocalisse è, sempre, anche una “rivelazione”. E la rivelazione, nel nostro caso, rappresenta un’apertura alla consapevolezza dell’abisso di NON SENSO cui ci siamo ridotti abbracciando il mito di una libertà assoluta, capace di fare a meno del legame con gli altri e con il creato. Se, dunque, il lago è morto a causa della crisi della comunità locale, proprio dalla sua cura la comunità potrà rinascere. Da dove, infatti, viene l’identità? Cercando, in un qualsiasi vocabolario, il significato di una parola ne troviamo quasi sempre tanti. Da dove viene, dunque, il preciso significato della parola identità? Viene dal contesto della frase, dalle parole e dai concreti vissuti che gli stanno intorno. Lo sapevano bene i Pescatori che, DAL BASSO, hanno, nel 2018 – ’19, approntato un progetto di recupero del lago di Varese cui, credo, hanno saputo portare un contributo unico. Il contributo di chi conosce, in virtù dell’esperienza e, soprattutto, di un sapere antico, di un sapere secolare capace di trarre dal legame e dalla custodia della ruvida bellezza del lago e del suo paesaggio, il fondamento di un’appartenenza condivisa e profonda: l’identità di una comunità.

Nel febbraio ‘19, al Chiostro di Voltorre, il progetto di risanamento del lago, frutto della collaborazione tra associazioni, imprese ed enti pubblici locali, è stato presentato al pubblico evidenziando le grandi opportunità di cura e di accrescimento del collante collettivo che lo caratterizzavano. Gli interventi, infatti, prevedevano non solo interventi sul lago, ma anche sulle rive, sulla rete fognaria e sull’intero paesaggio e chiamavano in causa una miriade di soggetti e competenze. Insomma, vi era spazio per il contributo di tutti e, in primo luogo, per la collaborazione delle Amministrazioni Comunali nel concorrere al monitoraggio degli scarichi, alla separazione delle acque bianche da quelle reflue, alla pulizia delle rive e dei boschi circostanti e, soprattutto, alla tutela del suolo e del paesaggio tramite una pianificazione urbanistica sostenibile e rispettosa del lago e del suo ambiente. Si tratta di GRANDI OPERE INFRASTRUTTURALI, magari meno visibili del solito, ma non per questo meno “economicamente rilevanti” se lo scopo è quello di migliorare la qualità di vita delle persone ancorandone il futuro a solide fondamenta piuttosto che colpirne l’”immaginario costruttivista” con l’unico obiettivo di carpire un fugace consenso politico.

La scuola al centro: Autonomia Scolastica e Territorio: Dalla cura del lago, un modello educativo.

Da qualche anno, a Biandronno, stanno avvenendo, nel contesto di un effettivo, concreto esercizio dell’Autonomia Scolastica, cose interessanti e innovative anche se, magari, poco conosciute. Sempre più frequentemente alcuni ragazzi degli Istituti di Istruzione Superiori vengono a fare ALTERNANZA SCUOLA LAVORO nei nostri uffici comunali e, non di rado, l’amministrazione si è attivata per un più ampio coinvolgimento delle imprese locali e di altri Comuni. Per contro, alcuni nostri concittadini esperti (es. il Prof. Enrico Sabbioni), si sono messi a frequentare le aule scolastiche offrendo agli studenti ulteriori, stimolanti opportunità di apprendimento e di rapporto con la realtà culturale e produttiva esterna. Con tutto ciò si è favorita la crescita quantitativa di una rete di rapporti volta ad un salto di qualità, al superamento di una soglia oltre la quale l’incremento delle connessioni consenta di poter effettivamente parlare “della scuola come di un villaggio, di una comunità educante in fieri” e della formazione di “competenze del territorio”. In quest’ottica l’aspettativa appare certamente ambiziosa e la meta ancora molto lontana. Tuttavia, le due Imprese Formative Simulate (IFS), attivate in convenzione tra Amministrazione Comunale, Istituto Superiore Edith Stein di Gavirate ed alcune imprese e associazioni locali, oltre a rappresentare un fattore di autentica innovazione, vanno certamente nella direzione giusta: quella di abbattere il muro che ancora separa la scuola dalla realtà locale.

Per spiegarmi meglio, provo a fornire qualche dettaglio in più. Quali sono gli “oggetti” delle due “imprese sociali simulate biandronnesi” sulle quali hanno lavorato alcune classi dell’Edith Stein di Gavirate? La prima, partita nel 2017, riguardava un servizio di noleggio di piccole imbarcazioni elettriche e di biciclette con pedalata assistita volto a valorizzare siti di interesse ambientale, storico e monumentale che gravitano su un patrimonio, già cospicuo, di piste ciclabili locali. La seconda, prevedeva la ristrutturazione di una vecchia cascina da trasformare in agriturismo. Certo, è solo un inizio, ma la strada è quella giusta. Mettere la scuola al centro della rinascita. Se ne parla da decenni, ma per farlo occorre metodo e convinzione. Se intesa in senso sufficientemente ampio e più autentico, L’ALTERNANZA SCUOLA LAVORO rappresenta quel metodo per tutti i gradi di istruzione. Quanto alla convinzione, non è difficile comprendere che nessun progetto di rinascita, per quanto possa essere tecnicamente ben fatto, potrà mai assicurare un futuro al lago, al nostro paesaggio ed alla nostra comunità, senza entrare nelle menti e nei cuori dei nostri ragazzi. A questo riguardo, è bene comprendere che non si tratta dell’ennesima “cosa in più” che dovrebbe fare la scuola, oltre a educare gli alunni e le famiglie ad una corretta alimentazione, ad un uso responsabile di internet, alle giuste condotte in caso di calamità naturali o di primo soccorso ecc. ecc. ecc. Il metodo dell’alternanza suggerisce un’altra strada. Una strada molto diversa da quella che si limita ad aggiungere nuovi compiti all’interno di un elenco infinito che la scuola, per quanto possa metterci della buona volontà, non riuscirà mai ad esaurire. La via dell’alternanza, in estrema sintesi, si chiama “metodo induttivo”. Invece che svolgere le discipline in astratto, principalmente sui libri o alla lavagna, l’alternanza mette al centro i problemi, la sfida della realtà o, come anche altrimenti si può dire, il COMPITO DI REALTA, per affrontare il quale le discipline vengono chiamate in causa e apprese dai ragazzi. Ecco, dunque, come il progetto di rinascita del nostro lago e del suo paesaggio può, anzi deve, pena il sicuro fallimento, divenire quella sfida, quella molla capace di suscitare la motivazione e le necessarie competenze cognitive e non cognitive (competenze educative) in cui calare i percorsi delle materie di insegnamento. In altri termini, serve chiedersi quanta storia e arte ci siano nell’Isolino Virginia, nelle ghiacciaie di Cazzago e nel Sacro Monte di Varese, quanta scienza della terra e matematica ci siano nel Lago di Varese, nella Palude Brabbia e nel Laghetto di Biandronno, quanta letteratura nel teatro dei burattini di Gualberto Niemen ecc. ecc. Prendersi cura di tutto questo patrimonio, di tutta questa bellezza che ci è stata donata e di cui dovremmo sentirci “parte incantata” piuttosto che “estranei osservatori”, significa, in primo luogo, indagarla INDOSSANDO GLI OCCHIALI DELLE DISCIPLINE nell’ottica di un lavoro collettivo, conservativo e sostenibile.

Democrazia rappresentativa o democrazia diretta? Dal crepuscolo dello Stato del Benessere alla Cittadinanza Attiva fondata sulla Sussidiarietà Circolare.

Crisi fiscale dello Stato, crisi dei debiti sovrani, crisi della partecipazione e della rappresentanza democratica trasformatasi in partitocrazia lobby-dipendente: da anni se ne parla. Forse qualche decennio fa di più, mentre, oggi, proprio quando il fenomeno ha assunto dimensioni macroscopiche, l’analisi sembra paradossalmente indebolita. Come succede quasi sempre, “l’Accademia” sforna “ricette curative” in grande quantità, ma sempre, essenzialmente, conservative dello status quo. Insomma, se per l’Accademia i problemi ci sono, è anche vero che il sistema attuale è solido e prima o poi una via d’uscita si troverà. È stato così negli anni Trenta, quando, mentre le imprese chiudevano e la gente pativa la fame perché i granai erano troppo pieni, la maggior parte degli economisti continuava a sostenere le attitudini autoregolative del mercato nel lungo periodo senza accorgersi che, nel breve periodo, con lo stesso mercato, stava morendo anche lo Stato liberale. È così anche oggi, quando, di fronte alla crisi dello Stato democratico sociale del benessere, gli intellettuali liberal – progressisti, gira e rigira, persistono nel vedere la salvezza unicamente in una prossima rinascita, se non, addirittura, in un prossimo rafforzamento del caro, vecchio Welfare State (Stato del Benessere).

Oggi, come ieri, pertanto, il rischio è che la crisi, in assenza di autentica capacità innovativa della cultura democratica e personalista, partorisca mostri. In questo quadro, un minuscolo, modestissimo tassello propositivo può forse venire dall’esperienza del nostro Comune di questi ultimi anni. I detrattori, di certo, avranno buon gioco nell’additare la presunzione di una tale affermazione. Tuttavia, bisognerebbe seriamente riflettere sull’infinitamente piccolo di ogni inizio. All’origine c’è sempre un eremo, un monastero, una cantina, un cenacolo ecc. ecc.

 La crisi fiscale e del debito pubblico si è manifestata, recentemente, anche a Biandronno in modo non meno drammatico rispetto alla generalità del nostro paese. La mancanza di risorse ha spesso costretto a rimandare spese necessarie quali quelle per la manutenzione delle strade, la pulizia degli spazi pubblici, la messa in sicurezza degli edifici comunali e molto altro ancora. Malgrado tutto ciò, cosa ha consentito al paese di restare in vita, di continuare a garantire l’essenziale ai propri cittadini? La risposta è molto semplice ed è sotto gli occhi di tutti: il contributo irrinunciabile del Volontariato, ovvero della Cittadinanza Attiva. Cioè, da quella forma di nuovo associazionismo del XXI secolo che nulla ha a che spartire con le tradizionali cinghie di trasmissione dei partiti di massa del secolo scorso. È successo, così, che l’Amministrazione Comunale, tramite convenzioni e/o accordi informali, grazie al lavoro gratuito di tante persone, ha potuto mantenere in funzione la scuola materna, la palestra delle scuole elementari e medie, i campi di calcio, il Teatro e la Villa Borghi; è riuscita persino, di tanto in tanto, a pulire per bene la riva del lago e a svuotare, con accettabile regolarità, i relativi cestini pieni di rifiuti debordanti. Alcuni Volontari hanno poi assicurato il trasporto di malati e anziani all’ospedale per ricoveri o visite, altri hanno collaborato all’attraversamento pedonale degli alunni e, infine, moltissimi hanno scandito i ritmi della nostra quotidianità con una miriade di eventi ricreativi che, mai e poi mai, il Municipio, neppure nelle migliori condizioni finanziarie, avrebbe potuto realizzare. A questo punto, sarebbe veramente interessate se a qualcuno venisse in mente di tradurre in euro il valore prodotto dall’associazionismo biandronnese in questi ultimi anni. Molto probabilmente ne uscirebbe un quadro impressionante di quanto PIL (Prodotto Interno Lordo) locale nascosto, di quanta “ricchezza buona”, benché sottratta al monitoraggio della contabilità nazionale, sia stata effettivamente prodotta dai nostri concittadini nel nostro piccolo paesello.  

Qual è l’insegnamento che si può trarre da tutto ciò? Si può forse riassumere in una categoria: LA COMPETENZA AUTOREGOLATIVA DELLA SOCIETÀ CIVILE. La stessa naturale resilienza della società civile che, secoli or sono, portò, ad esempio, alla nascita, nell’Europa Cristiana, degli Hotel Dieu e, verso la fine dell’800, alla formazione delle società operaie di mutuo soccorso (SOMS). Una “competenza immanente della comunità locale” quando questa è chiamata a rispondere, in AUTONOMIA E LIBERTÀ, alle sfide che le si prospettano. Una competenza che, nel XX sec., è stata, però, abbondantemente espropriata dallo Stato Totalitario prima e dal centralismo del Welfare State poi. Istituzioni, queste ultime, che hanno, alla fine, inaridito soprattutto la COMUNITÀ DI PROSSIMITÀ trasformandola in una massa di individui passivi e reclamanti, sotto la rubrica dei diritti sociali, l’intervento altrui nella soluzione dei propri problemi. Pertanto, quella che un tempo era l’autentica solidarietà di persone indipendenti, si è trasformata, in virtù della nazionalizzazione dei sistemi di sicurezza sociale, in un meccanismo prevalentemente indirizzato dalla ricerca del consenso politico. La crescita esponenziale della spesa, dei tributi e del debito pubblico hanno poi fatto il resto mutando la democrazia, dall’originario presidio delle libertà borghesi che era – passando attraverso la crisi della rappresentanza – nell’attuale predominante partitocrazia.

Riguardo al rapporto tra Welfare State e Comunità di Prossimità, suggerisco caldamente questo podcast sulla vita di un importante anarchico, tanto visionario e profetico quanto eterodosso: “Wikiradio Colin Wardraccontato da Francesco Codello

Di fronte alla profondità di questo cambiamento epocale che rende il sistema politico sempre più sensibile alle lobby e/o Think Tank dipendente, quanto incapace di ascoltare il popolo, la medicina sembrerebbe essere, da ultimo, quella della democrazia diretta. Sennonché, la democrazia diretta era e rimarrà, malgrado internet, un’utopia o, molto più realisticamente, un semplice meccanismo correttivo della democrazia rappresentativa. Un’Istituzione incapace di restituire alla società, con la sua funzione autoregolativa, la possibilità di farsi COMUNITÀ DI PROSSIMITÀ in libertà e responsabilità. Ecco, dunque, come la minuscola esperienza del nostro Comune, insieme a tanti altri straordinari documenti troppo velocemente archiviati come tanto geniali quanto marginali, possa fornire qualche prezioso elemento di riflessione a chi, malgrado l’enormità delle sfide, intenda ricercare le soluzioni restando all’interno del RECINTO DI UNA CULTURA DEMOCRATICA E PERSONALISTA.

Certamente, la democrazia è sempre stata e, probabilmente, rimarrà prevalentemente rappresentativa, ma, penso, così, lasciata da sola, la democrazia rappresentativa non ce la fa a rinnovarsi. Pertanto, il rischio concreto è quello di perdere, con la democrazia rappresentativa, la democrazia tout court. L’esperienza invece dimostra che, quando le Istituzioni trovano l’umiltà e la modestia che servono per assicurare spazi non clientelari al concorso dei cittadini al bene comune, quando le Istituzioni non temono, ma coltivano le comunità locali sostenendo, incoraggiando, coordinando (PRINCIPIO DELLA SISSIDIARIETA’ CIRCOLARE), anche la democrazia è capace di assumere un volto nuovo.  Il volto non paternalistico dell’unico sistema politico sino ad oggi concepito in grado di garantire la piena formazione della persona che, attraverso il suo lavoro (lavoro spesso donato), partecipa da protagonista ad una narrazione collettiva che ne innalza i destini al rango della storia.

Sia chiaro, Biandronno è solo all’inizio di questo ipotetico cammino. Anzi, oggi stiamo, forse, già assistendo ad un arretramento laddove si evidenziano, qua e là, i rigurgiti di un modo strumentale di concepire le associazioni, trampolino di lancio di questo o quel candidato, sostegno di una data lista contro quell’altra. A volte sembra di tornare alle logore cinghie di trasmissione il cui esito sarebbe l’esatto contrario del necessario, auspicato supporto alla riforma della democrazia rappresentativa. Il rischio, dunque, è quello che, come spesso accade, l’eccezionalità dell’esperienza maturata, derubricata al “già visto”, vada dispersa cadendo nel dimenticatoio. Serve dunque, in primo luogo, una riflessione capace di renderci tutti consapevoli della novità che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo. Una riflessione capace di partorire un profilo politico-istituzionale innovativo di servizio e supporto all’autoorganizzazione dei cittadini tramite l’ulteriore concessione di spazi, la sottoscrizione di altre convenzioni pluriennali, la formazione di tavoli di coordinamento fino ad arrivare, perché no, ad un vero e proprio sobrio statuto delle associazioni volto a garantirne la piena autonomia e parità di trattamento[1].  

Dalla sicurezza ai cambiamenti climatici: un esemplare banco di prova per la nostra comunità.

Il coro è abbastanza unanime: com’è che malgrado la riduzione dei reati la gente si sente meno sicura? Colpa della stampa, dei populisti che fomentano le paure della gente, o c’è dell’altro? Il fatto è che il sentimento dilagante di insicurezza dipende da tanti fattori. Cause tra le quali il nostro cervello non sa distinguere con esattezza tendendo, piuttosto, a fare sintesi. Non distingue, il nostro cervello, anche perché, in effetti, c’è poco da distinguere. Cosa differenzia la paura di subire un furto ogni volta che si esce di casa dal timore che prova il precario ad ogni scadenza del contratto a tempo determinato? E la solitudine in cui vive un numero crescente di persone non fa altrettanta paura? La stessa paura? Le disuguaglianze in aumento, il rischio che la povertà ti attenda dietro l’angolo, non fanno, anche loro, paura?

Erano le 4 del mattino quando, con mia moglie, Sindaca di Biandronno, siamo usciti per rilevare i danni prodotti dall’ultima “bomba d’acqua” e dalle consuete, potenti, raffiche di vento. Nella faccia delle persone si leggeva la rabbia e la paura. La stanchezza di notti passate, spesso, a guardare i movimenti delle nuvole nel cielo. Accadono sempre più frequentemente questi fenomeni, oramai, in media, uno o due l’anno. Con rammarico occorre ammettere che, tra le molte cause dell’insicurezza, i cambiamenti climatici non rappresentano certo la minore. Serve prevenire, serve che le nazioni si mobilitino almeno per contenere il fenomeno. Abbiamo però anche il dovere di riconoscere che – anche a causa del poco o niente che ancora si sta facendo, malgrado i continui appelli del mondo scientifico e delle organizzazioni internazionali – le nostre comunità sono già e saranno prossimamente più esposte al rischio clima. Nel contesto di un sistema politico lontano dal cittadino medio e di un Welfare in crisi, la manaccia risulta ancora più grande. Un’autentica sfida per i nostri paesi all’interno della quale le Amministrazioni potranno fare una grande differenza tra Comune e Comune. Da un lato avremo, molto probabilmente, come già in parte accade, Amministrazioni che, consapevoli del rischio, sapranno cogliere l’opportunità di farsi ancora più comunità solidale chiamando a raccolta le competenze associative, professionali e imprenditoriali presenti nel territorio e indirizzando e sollecitando i propri cittadini ad assumere comportamenti virtuosi; dall’altro lato Amministrazioni che, in un mondo che cambia sempre più velocemente, andranno avanti come se nulla di nuovo stesse accadendo. Quali, per i cittadini residenti, potranno essere gli esiti di condotte tanto differenti, non credo sia difficile da prevedere. L’argomento vale a livello globale come a quello locale, per le imprese come per le più piccole comunità. Paradossalmente, la globalizzazione, che pareva destinata ad omologare tutto, sembra invece esaltare le differenze e l’importanza del territorio. Ancora una volta, con un certo rammarico, occorre riconoscere che quei paesi e quelle comunità che non sapranno esprimere una classe dirigente all’altezza dei nuovi compiti si troveranno costrette a pagare un prezzo molto alto e/o a fronteggiare un futuro più difficile e ancora più precario.


[1] la parità di trattamento non va intesa come trattamento eguale. Come ci ricorda don Milani, non c’è infatti maggiore disparità di quando situazioni sostanzialmente diverse vengono trattate allo stesso modo.

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