Invito alla Pasqua di rinascita

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Dario Nicoli

Se ci sentiamo vivi, cioè umani, non possiamo abituarci ai tanti segnali di smarrimento che ci inseguono tutti i giorni, a quello stato perenne di oppressione per le cattive notizie che per il crudele interesse degli editori dei media ci vengono gettate addosso per imporci un’attenzione non voluta assieme all’orrore di chi è obbligato ad abbracciare i segni del male che si annida nelle pieghe del nostro mondo caotico.

Non ci si può abituare neppure a quello stato di stordimento che deriva dall’essere perennemente esposti al bombardamento di messaggi, seduzioni, richieste di prestazioni che provengono da voci dissonanti con il desiderio del nostro cuore che chiede serenità e possibilità di sostare su ogni più piccolo dettaglio di bellezza. Che invece non vediamo, appannato com’è da una nebbia di sottile malanimo.

I materialisti ci dicono che è colpa dell’ingiustizia sociale; ma i figli che uccidono i loro genitori non sembra siano mossi dal desiderio di uscire dalla miseria, gli uxoricidi non accadono esclusivamente in ambienti “culturalmente deprivati”, i ragazzi che muoiono negli incidenti dei giorni dello stordimento non mancano dei mezzi per vestirsi bene, entrare nei locali, consumare, ballare, instupidirsi con alcool e sostanze varie.

Se davvero ci sentiamo vivi, non possiamo fare l’abitudine al dramma di una gioventù segnata dal continuo aumento di situazioni di fragilità: difficoltà nel vivere relazioni con gli altri, con il mondo e con sé, problemi di attenzione, di apprendimento. Fino all’autismo, la condizione più inquietante perché, specie nelle forme più gravi, non offre l’appiglio della relazione, ma solo ripetizione ossessiva di gesti e suoni. Gli scienziati alla ricerca di cause genetiche o influenze ambientali utilizzano espressioni vaghe come “condizione eterogenea e complessa”. Ma rimane il dubbio che questi ragazzi e questi giovani siano stati feriti più gravemente dalla stessa fatica del vivere di cui siamo tutti segnati, quella mancanza di un legame vivo, sensato, autentico, tra il nostro mondo intimo e la realtà esterna.

Uno degli imbrogli più frequenti è la “vita in vacanza” spacciata come garanzia di felicità. Quante volte negli ultimi anni abbiamo incontrato persone, spesso giovani, che, alla domanda “che lavoro fai?” ci hanno risposto, non senza imbarazzo, “prendo il reddito di cittadinanza”. La motivazione non era quasi mai basata sull’impossibilità nel trovare un lavoro, ma su un calcolo che rendeva più conveniente questa soluzione piuttosto che il lavoro.

I materialisti continuano imperterriti a parlare di lavoro alienante, incapaci di cogliere l’oceano di alienazione che invade il cosiddetto tempo libero. Dimenticando che il lavoro, comprese le sue tensioni, è un modo di fare comunità, di tessere legami tra le persone, di essere riconosciuti dagli altri per il nostro valore; è l’esperienza che ci toglie dalla schiavitù delle preferenze e dei sensi, dalla cattiva libertà rinchiusa entro lo spazio ristretto del nostro io.

Ma occorre affinare lo sguardo, perché, come ha scritto Charles Péguy, “dov’è passata la morte lì passa la grazia”. Perché accanto all’ottundimento dell’amore per la vita cresce il desiderio di una svolta, in cui i genitori siano capaci di trasmettere ai figli l’amore per la vita, e dove tutti possiamo impegnarci in gesti di dono che rendano la nostra società un luogo in cui poter essere davvero liberi, rinnovando i legami con il territorio in cui viviamo, il cuore della democrazia, rendendo possibile una rinascita che ci consenta di trovare casa nel mondo umano. Nella casa piccola – la famiglia – e nella casa più grande: la comunità, ambedue luoghi in cui poter essere se stessi, accolti e protetti, così da poter svolgere il nostro cammino. Perché la libertà poggia su due pilastri: uguaglianza, ovvero la giustizia, e fraternità, ovvero l’amore reciproco.

Charles Péguy ci indica il gesto più umano di rinascita che tutti insieme possiamo compiere: metterci in viaggio su una nave guidata dalla “Stella del mare”, con la stiva piena del “più bel cargo”: l’oro e il frumento dei nostri peccati che sono stati considerati preziosi e riscattati dal suo Figlio. Una nave che trasporta “l’oceano della nostra immensa pena”, spinta dalle preghiere verso la meta, quel destino buono che, al prezzo di quella morte infamante, è preparato per noi.

È questa la Pasqua, è questa la Buona Pasqua che auguro a tutti!

4 commenti

  1. Author

    Un articolo che esprime una sofferenza che, giustamente, direi, persino, necessariamente, si manifesta, ma che indica anche una via percorribile. Quindi una sofferenza sana, diversa dal lamento masochistico. Una sofferenza che apre alla speranza, che ci spinge ad alzarci, a fare pulizia delle molte cose vane di cui (complice una devastante pubblicità) ci circondiamo quasi d’istinto. Una sofferenza che sollecita l’impegno nelle cose che contano per davvero. Credo sia questo il migliore augurio di Buona Pasqua che si potesse fare. Grazie

  2. Questo malessere generale che investe adulti di tutte le età, ragazzi giovani e giovanissimi, è all’ordine del giorno e si manifesta purtroppo sempre più con episodi di violenza che conducono spesso alla morte. Un forte disagio che subentra per l’incapacità di gestire i propri sentimenti negativi e che trova come soluzione, l’eliminazione fisica dell’altro/a come se l’altro/a fosse la parte malata di colui che compie l’azione di violenza, pensando, così facendo, di poterla eliminare, venendo meno pertanto a :” Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
    Donata

  3. Hai pienamente ragione: la violenza è il segno di un malessere che nasce dall’incapacità di gestire in modo umano i rapporti con gli altri, ma soprattutto con il proprio mondo interiore. Penso però che non basti più la frase “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” perché è negativa; va sostituita con “ama il prossimo come te stesso”, che è invece positiva.

    1. Si l’ ho pensata e la sento come riflessione successiva alla prima più che sostitutiva. Non l’ho espressa perché con il male dentro, che ti corrode, non puoi amarti e quindi amare. Ma l’amore degli altri inevitabilmente potrà intervenire in modo positivo.

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