dalla “resilienza” benedettina alcuni insegnamenti cruciali sulla relazione tra centro e periferia

San Benedetto porge la sua Regola a san Mauro e ad altri monaci; miniatura francese da un manoscritto della Règle de St. Benoît (Regula Benedicti), abbazia di St. Gilles, 112

di Bruno Perazzolo

L’amica Gabriella mi ha inviato questo articolo che mi ha suggerito un paio di riflessioni o, meglio, associazioni, che spero possano risultare interessanti per il nostro cammino. Per come l’ho inteso io, “The virtue of discretion: When the rules break down, you must judge what to do on your own. Discretion is necessary for navigating the muddle of life” verte su tante questioni; tra queste una domanda risulta cruciale. Credo la si possa formulare così: “negli organismi viventi, organizzazioni sociali comprese, poiché le regole non hanno tutte lo stesso rilievo, quale relazione intercorre tra quelle più e quelle meno importanti in rapporto all’adattabilità dell’ente considerato?”

Inizio dalle regole “pesanti”. Regole che potrei anche chiamare “grosse” o “basiche”. Tutti i sistemi viventi sono sistemi aperti e, per sistemi viventi aperti, non intendo tanto gli individui quanto la specie cui appartengono. Come hanno mostrato bene Darwin e tutta la biologia, l’evoluzione della specie protegge UN PRINCIPIO: UNA REGOLA PESANTE. Anche la scienza funziona così non tanto a livello delle singole teorie, quanto, piuttosto, al livello delle scuole o programmi di ricerca: un nucleo essenziale (REGOLA PESANTE) viene adattato, resiste ai casi particolari (casi che spesso risultano essere, di primo acchito, veri e propri controfatti), in forza di una serie “teorie corollario / regole leggere”. Stessa cosa vale per il diritto dove, accanto al diritto oggettivo (il testo della norma giuridica: regola pesante) serve l’interpretazione del giudice, dalla quale discende la giurisprudenza (regola più leggera da applicare al caso concreto) notoriamente soggetta a cambiamenti che possono anche essere profondi nel tempo. Conclusione: regole pesanti e leggere non possono non convivere se il sistema dato deve potersi qualificare come “SISTEMA VIVENTE”, cioè capace di ADATTAMENTO, OMEOSTATICO.

Sistema aperto, però, non significa sistema non selettivo. Paradossalmente un sistema infinitamente aperto al proprio ambiente, cioè non selettivo, avrebbe vita molto corta. Penso, ad esempio, al nostro sistema immunitario che, nella misura in cui cessa di diventare selettivo, ci porta all’altro mondo. In altri termini un sistema vivente senza confini sarebbe una pura utopia nichilista / autodistruttiva.

Come sostiene l’autrice dell’articolo, Lorraine Daston, il sistema benedettino deve sicuramente la sua longevità proprio a questa sua capacità di conservare gelosamente il nucleo, le regole grosse (regole  identitarie, il centro), in contesti enormemente diversi (le periferie) grazie alla “discrezione“: le regole sottili. In quest’ottica il modello, che mescola unità e autonomia, rappresenta ottimamente, a mio giudizio, l’idea di sussidiarietà che dovrebbe animare tutta la cultura occidentale ed europea contrastando la rigidità dell’omologazione da un lato (l’idea di Stato Unitario alla francese) e la dispersione caotica dei nazionalismi dall’altro (sovranismo all’ungherese).     

Sin qui il mio argomento penso sia in linea con il pensiero della Daston. La parte del suo lavoro che mi convince meno è quella finale nella quale intravvedo, per come ho inteso il suo articolo, un’idea non condivisibile dell’evoluzione del rapporto tra regole pesanti e regole leggere nel passaggio dalle società tradizionali alla modernità. Il fatto del tendenziale prevalere delle regole sottili, certamente vero, non lo attribuirei tanto all’ambiente divenuto più controllabile e stabile (al riguardo penso l’esatto contrario), quanto a quel fenomeno che Severino ha apostrofato come “il tramonto dell’episteme” altrimenti noto come “la morte di Dio” di nietzschiana sentenza, successivamente volgarizzato da Ionesco e poi da Woody Allen in: “Dio è morto, Marx pure e anche io non mi sento troppo bene”. Questo salto, che mi sentirei di qualificare, come “mutazione genetica”, del moderno al post-moderno, ha reso sempre più “deboli” le nostre regole pesanti divenute, all’incirca a partire dall’800, improvvisamente “assai più magre” quanto a contenuto e resilienza. Per contro – oltre al fattore ideologico riconducibile agli sviluppi della filosofia dell’800 – a partire soprattutto dalla seconda metà del ‘900, le regole sottili sono iniziate a proliferate in modo confuso e, spesso, contraddittorio, in ogni caso in forma sempre più precaria, essenzialmente incentivate dai più veloci cambiamenti tecnologici, dalla globalizzazione dei mercati sia dei prodotti sia delle risorse produttive, dal consumismo e dal costume di mettersi alle spalle il passato e di tessere ovunque le lodi del cambiamento come stile di vita valido in sé e per sé: un inno permanente alla giovinezza, alla rottura di ogni schema dato, alla “società liquida” e all’”uomo flessibile”: in breve un inno alla cultura dello slegame.

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