Contributo di Luca Cadili

Nella lingua greca antica la parola dēmiourgòs (dēmiūrgòs) indicava tutti coloro che lavoravano per il popolo, o, più esattamente, tutti coloro che con l’opera delle loro mani venivano incontro ai bisogni dei propri concittadini. Nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo i dēmiourgòi costituivano una classe eterogenea che assumeva una propria identità solo allorché essa veniva contrapposta a quella, più definita ed omogenea, dei lavoratori della terra, contadini liberi e braccianti. Dēmiourgòs era infatti chiamato il vasaio, il posatore di pietre ed anche chi abbelliva queste ultime con un’iscrizione o con delle figure in rilievo; dēmiourgòi furono inoltre quei maestri d’ascia che costruirono le veloci navi che sconfissero la flotta dei Persiani a Salamina, le triremi di Temistocle.

È però interessante osservare che quando Platone volle dare un nome all’artefice degli dei e del mondo sensibile – il mondo che si può vedere con gli occhi ed esplorare con gli altri sensi – usò proprio questa parola: dēmiourgòs. Però Platone, il filosofo greco al quale il pensiero occidentale deve ancora molti degli argomenti che fanno oggetto delle sue riflessioni, non ci spiega che cosa veramente accada quando l’umile dēmiourgòs mette mano al suo lavoro. Ce lo dice invece l’autore di un’esortazione ai pagani perché abbracciassero il Cristianesimo, il quale fu confuso per lungo tempo con Giustino, filosofo e difensore della fede, detto il Martire perché diede testimonianza del suo amore verso la Creazione mentre fu condotto a morte, nel 165, sotto il regno dell’imperatore Marco Aurelio. Nel ricordare proprio il dēmiourgòs di Platone per equipararlo al Creatore biblico, questo scrittore dice così: «il dēmiourgòs trae quella forza che si esplica con l’arte delle sue mani dalla materia». Si può perciò dire che chiunque mette mano ad un’opera, proprio nel farla e nel portarla poi a compimento scopre – e lo scopre con quella verità che solo una grande gioia può rivelare – il suo vero talento. Ma tutto ciò non è possibile se nessuno pone quell’artigiano in condizione di fare questa scoperta che certamente cambierà la sua vita. Così dovrebbe essere quell’officina che chiamiamo scuola. Non bisogna rinunciare agli insegnamenti che diciamo, forse con un’enfasi che attira i sospetti e il mormorio dei più, curriculari: altrimenti sarebbe come affermare che il vasaio non ha bisogno di una creta di qualità per creare un recipiente che conservi a lungo ciò che è destinato a custodire. Ma bisogna permettere che a questa materia i nostri studenti diano vita con le loro mani e il loro ingegno: questa possibilità va data nei tempi e nei modi che siano ritenuti più opportuni: ma deve essere data. Nessuno di noi vorrebbe ascoltare da un nostro allievo diventato adulto le parole che, nella meravigliosa serie televisiva di Luigi Comencini e Suso Cecchi d’Amico, Mastro Geppetto rivolge sconsolato al suo burattino: «Mastro Ciliegia non ha nessuna stima di me. E perché poi la dovrebbe avere? Non ho fatto niente. Ma non ho fatto niente, non perché non ne fossi capace, ma perché nessuno me ne ha dato la possibilità».

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1 commento

  1. Grazie Luca, la tua riflessione, colta e garbata, dà forma a pensieri e sforzi magari sparsi e occasionali, ma sempre presenti nella scuola. Ci invita a non perdere di vista l’essenziale.

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