Gli opposti di un continuum all’interno del quale cogliere lo stato di salute della società
di Bruno Perazzolo
Nel suo libro, “Comunità e società”[1] del 1887, testo poi divenuto un classico della sociologia, uno dei padri fondatori di questa disciplina, Ferdinand Tönnies, parla della comunità come “Totalità”, come un’“Unità Organica Vivente”. Su questo punto, giustamente, faceva poggiare l’intera costruzione sociologica, ovvero l’idea di una disciplina a sé stante, dettata dall’impossibilità di ridurre una Totalità alle sue Parti o Elementi. In breve lo “spirito della sociologia” si fonda sul rifiuto sia del “riduzionismo psicologico” sia dell’”individualismo metodologico” postulato degli economisti[2] il cui concetto, se accolto, porterebbe a cercare “i caratteri di un triangolo nei suoi segmenti”. Cosa evidentemente impossibile poiché l’idea del triangolo, allo stesso modo dei tratti tipici di un insieme di individui cooperanti, rappresenta un’“emergenza irriducibile”, non rintracciabile nelle singole parti (i segmenti) di cui il triangolo si compone.
Nel suo articolo, “Collettività e individualità: due facce della stessa medaglia”, Daniela Mario illustra bene le basi neurobiologiche di questa premessa mostrando come la dimensione collettiva della vita umana non sia mai un puro costrutto intenzionale, né il solo prodotto di una deliberazione consapevole (il contratto sociale) come supponeva l’intera filosofia giusnaturalista di stampo illuminista. Essa, invece, risiede nell’”intelletto universale dell’uomo”, come parte di quella ragione “pura” pratica kantiana che si esprime nei concetti di comprensione, concordia, partecipazione, compianto, del “vedere l’altro” menzionato nel film Avatar: la via dell’acqua ecc.. Come direbbero oggi gli etologi, la dimensione collettiva della vita umana si basa su un sapere innato che, nel momento stesso in cui rende possibile l’esperienza, non è deducibile da essa. Come sostiene Daniela Mario, le conclusioni appena accennate non provengono solo dalla neurobiologia. Sono oramai condivise dall’intera comunità scientifica internazionale nel senso più ampio del termine comprendente la paleontologia, l’antropologia, lo studio della preistoria ecc.. Un testo per tutti: “da animali a dèi” di Y.N. Harari[3]. Nella prima parte del corposo libro, l’autore racconta della famiglia degli Ominidi e, al suo interno, dalla progressiva affermazione dei Sapiens, dimostrando implicitamente come lo “stato di natura e la conseguente deliberazione razionale della società”, postulati degli illuministi e dei filosofi giusnaturalisti, non siano mai esistiti[4].
Nella parte finale del suo articolo, Daniela Mario, dopo aver opportunamente escluso il tema del libero arbitrio, che porterebbe l’indagine su altri percorsi, pone una questione cruciale in relazione al nostro stile di vita postmoderno: “Sorvolando sulla spinosa questione del libero arbitrio, a questo punto due domande sorgono spontanee: se siamo fatti per la socialità e forgiati in virtù di essa, come mai assistiamo sempre più ad una tendenza al solipsismo, all’individualismo sfrenato, alla strenua difesa delle proprie libertà senza tener conto di quella degli altri?”. In occidente, la storia dell’emergere dell’individuo dall’originaria condizione comunitaria sembra principalmente legata al protestantesimo, allo sviluppo dei mercati, all’affermazione dei sistemi burocratici e alla tecnologia delle comunicazioni. In Oriente, ma direi anche un po’ ovunque, credo risulti collegata maggiormente a tutte le esperienze di “fuga dal mondo” che portano la persona ad un progressivo isolamento e all’indifferenza verso tutto ciò che ha a che fare con la materia e la corporeità (l’ascesi ultramondana, diversa dall’ascesi intramondana di cui parla M. Weber a proposito del protestantesimo). Nella sua imponente trilogia, scritta tra il 1964 e il 1980[5], J. Bowlby riporta gli esiti di una ricerca pluriennale sul rapporto madre – figlio/a. Una ricerca che sarebbe certamente tornata utile a F. Tönnies che, in questo rapporto, intravvedeva il germe di ogni comunità. Lo studio di Bowlby individua, nelle dinamiche dell’attaccamento e della perdita della madre, quello che, con ogni probabilità, rappresenta il principale fattore costitutivo del carattere di una persona riguardo alla sua apertura al mondo, all’attitudine a concedere fiducia, a stabilire rapporti duraturi con i propri simili piuttosto che la tendenza all’introversione e all’isolamento ecc..
In conclusione: se, come sostiene Aristotele, è vero che l’uomo è, per sua natura, un essere sociale, nel senso comunitario del termine, è anche vero che tale potenzialità, che i biologi qualificano come “genotipica”, per manifestarsi in concreto (fenotipicamente) richiede l’incontro con una serie di condizioni ambientali favorevoli in assenza delle quali l’organismo prende altre strade. Strade che, giustamente, Daniela Mario definisce “autodistruttive”. Si tratta, con tutta evidenza, di un esito allarmante derivante dalla perdita di legami con l’ecosistema e con i propri simili, che, in questo caso, trova pieno riscontro nel nichilismo di tanta parte della filosofia contemporanea che, al riguardo, sembra maggiormente rappresentare una sovrastruttura o un epifenomeno piuttosto che un’oggettiva descrizione della reale condizione umana.
[1] Ferdinand Tönnies, Comunità e Società, La Terza 2011
[2] J.A. Schumpeter, storia dell’analisi economica, Boringhieri 1972
[3] Y.N. Harari, da animali a dèi, Bompiani 2017
[4] idem F. Fukuyama, identità, Utet 2019
[5] J. Bowlby, attaccamento e perdita, Bollati Boringhieri 1999