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di Cesare Trematore

Il successo della specie umana è in gran parte dovuto alla notevole capacità di collaborazione, che supera quella degli altri mammiferi. Gli esseri umani sono in grado di creare obiettivi comuni, provare empatia per gli altri, creare miti condivisi e sviluppare un senso di appartenenza che sono la base della socializzazione. Il  senso di appartenenza e identificazione è una necessità per l’uomo e sono fattori necessari   per l’autostima. Più forte sono questi fattori più l’autostima cresce mentre la mancanza di tali fattori può portare a una diminuzione dell’autostima.

 Nel corso dei milioni di anni, i gruppi in cui erano presenti individui con maggiori necessità sociali hanno avuto un vantaggio competitivo che ha portato alla diffusione della necessità di socializzare.

La socializzazione non è stata solo utile per affrontare i problemi derivanti da una natura ostile o per ottenere cibo attraverso la caccia, ma anche per difendersi da o attaccare altri gruppi umani. E anche questo è stato un vantaggio competitivo. In questo modo, una volta che è nato il concetto di “noi”, è nato anche il concetto di “non noi”. La catalogazione dell’umanità in “noi” e “non noi” è un’istintiva caratteristica del nostro cervello che può essere, solo parzialmente, modificata dalla cultura. Riporto i risultati di un paio dei tanti test fatti in proposito.

I soggetti di uno di questi test, individui attivamente antirazzisti, impiegavano più tempo a giudicare positivamente l’immagine di  individuo di una razza diversa rispetto a un individuo della stessa razza. Questa differenza nei tempi di risposta è dovuta al fatto che la risposta istintiva è più rapida rispetto a quella culturalmente mediata. In altre parole, per attribuire un giudizio positivo a una persona di una razza diversa, è necessario sopprimere l’istinto di diffidenza rispetto a ciò che è percepito come  diverso e quindi un potenziale pericolo.

Un altro esperimento ha dimostrato, in modo sorprendente, la tendenza dell’individuo a identificarsi con un gruppo sociale e a mostrare un atteggiamento più favorevole verso i membri del proprio gruppo. A un certo numero di persone è stato chiesto di contare i puntini all’interno di un quadrato, informandoli successivamente se avessero sovrastimato o sottostimato il numero di puntini. Questa dichiarazione è stata fatta casualmente, indipendentemente dal fatto che i partecipanti avessero effettivamente sovrastimato o sottostimato il numero di puntini. In questo modo, sono stati creati, artificialmente, due gruppi: quelli che avevano sottostimato e quelli che avevano sovrastimato. Questo processo ha innescato l’identificazione con un gruppo, nonché la divisione tra “noi” e i “non noi”. È emerso che ogni individuo si comportava in modo più generoso nei confronti dei membri del proprio gruppo rispetto a quelli dell’altro gruppo. Ripeto che, contrariamente a quanto credevano i soggetti dell’esperimento, la classificazione ed assegnazi9one ad uno dei due gruppi è stata fatta in modo casuale.

Ogni gruppo, per esempio una nazione, ha delle regole che ne definiscono il funzionamento. Queste regole, rappresentate dalle leggi, dai regolamenti e dalla morale, rappresentano un criterio di verità funzionale agli interessi del gruppo in questione. A questo punto si manifesta un altro fenomeno problematico. La maggior parte di noi ha la necessità di sentirsi parte di un universo significante, e lo fa attribuendo alla morale, o a una ideologia, un valore universale e assoluto. Questa strategia è funzionale alla coesione del gruppo, ma i “ non noi” che non condividono la nostra morale, sono automaticamente classificati come cattivi, empi o in qualche altro modo poco edificante. Questa prospettiva costituisce la premessa per la de-umanizzazione dell’altro, che a sua volta ci permette far del male senza incorrere nei tabù, di origine genetica, che ci impediscono di far del male a un nostro simile. Anzi ,  punire l’empio è un gesto meritevole e serve, anche questo dimostrato da una serie di esperimenti, a rafforzare la nostra autostima e il senso di identità.

Fatte queste premesse è evidente che esse spiegano abbondantemente le guerre e le altre forme di ostilità fra gruppi sociali ed ideologie. Da una parte prevenire un possibile pericolo, dall’altro punire gli empi o magari convertirli. Incidentalmente la spiegazione marxista della guerra non sembra essere ragionevole. Una sommaria analisi delle guerre mostra che anche per il vincitore i costi sono stati spesso superiori, in termini economici, ai benefici. Un gruppo sociale che non risponde a quella che viene percepita come una minaccia, anche solo culturale, vede la sua coesione e l’autostima dei componenti diminuire. Gli stessi meccanismi che sono necessari alla socializzazione innescano istintivamente una risposta  aggressiva, a meno che la riposta istintiva non sia superata da un condizionamento culturale.

Se esaminiamo i meccanismi che governano al suo interno un gruppo sociale, i principali sono l’influenza informativa, l’influenza normativa e la gerarchia. Questi tre meccanismi sono  innati e necessari per la socializzazione. Con influenza normativa indichiamo la tendenza ad accettare aprioristicamente le informazioni provenienti dal gruppo di appartenenza come valide. Questo meccanismo è necessario per l’apprendimento dal momento che non possiamo verificare tutto ciò che ci viene detto, ma favorisce l’instaurarsi all’interno dei gruppi sociali di bias cognitivi. In altre parole, è facile perdere la capacità critica. L’influenza normativa o normalizzazione consiste nell’interiorizzare i comportamenti e le ideologie del gruppo sociale di appartenenza e credere che quelle ideologie  o comportamenti siano normali, opportuni, necessari  e di valore assoluto e ciò ci lega fortemente al gruppo (identità, necessità di far parte di un universo significante, autostima)  A volte alcuni individui non riescono ad interiorizzare queste norme e ne simulano una adesione per paura del rifiuto sociale.

Nel 2014, un gruppo di ricercatori della Stanford ha condotto uno studio e pubblicato i risultati in un articolo intitolato “La maldicenza e l’ostracismo promuovono la cooperazione nei gruppi”. Alcuni elementi tratti dall’estratto della pubblicazione includono: “La presenza diffusa di cooperazione è difficile da spiegare poiché gli individui sono incentivati ​​a sfruttare le tendenze cooperative degli altri […] Gli individui che sono stati ostracizzati hanno risposto all’esclusione cooperando successivamente a livelli paragonabili a quelli che non sono stati ostracizzati. Questi risultati suggeriscono che la diffusione di informazioni reputazionali attraverso il gossip può mitigare i comportamenti egoistici, facilitando la selezione dei partner e contribuendo così a risolvere il problema della cooperazione, anche nelle interazioni non ripetute.”

L’ostracismo può essere considerato la forma estrema di violenza psicologica, ma sembra essere un meccanismo necessario per promuovere la cooperazione. La forma più estrema di ostracismo è il carcere, che è un monopolio dello stato.

Non posso concludere questa sezione senza menzionare che tutte le aziende, nelle nazioni di lingua anglosassone più che da noi, tendono a far interiorizzare ai dipendenti i cosiddetti “valori aziendali”, attraverso veri e propri processi di condizionamento mentale e l’uso diffuso della selezione e dell’ostracismo.

Tutte le specie sociali presentano una gerarchia. In alcune società di primati i livelli gerarchici sono più di  10.  La gerarchia si basa sulla differenziazione delle qualità, le quali possono variare da gruppo sociale a gruppo sociale. Nell’uomo, l’istinto gerarchico è innato, come dimostra il fatto che già dai due-tre anni i bambini attribuiscono un livello gerarchico alle persone con cui interagiscono. Si ritiene che questo istinto sia maturato attraverso la selezione naturale, poiché le organizzazioni gerarchiche sono più efficienti nel fronteggiare le difficoltà e gli eventuali nemici. Nella specie umana, anche nei gruppi di pari, dove non c’è formalizzazione, emergono i leader naturali. La forma di una  gerarchia dipende dal contesto in cui si sviluppa. L’istinto gerarchico spiega per esempio il famoso esperimento in cui ottime persone infliggevano, loro non sapevano che erano solo simulazioni, dosi massicce di correnti elettriche a alcuni individui colpevoli di aver dato una riposta sbagliata. Faccio a meno di menzionare come in molte occasioni, vedi le guerre ma non solo, persone miti e ragionevoli eseguano ordini inumani.

La socializzazione si basa su una serie di comportamenti istintivi innati, strettamente necessari per il suo sorgere, che negli opportuni contesti danno risultati indesiderabili quando l’acquisizione culturale non riesce a mediarli. La reversione al comportamento istintivo è particolarmente attiva nei momenti di stress. Un esempio è dato dal comportamento gerarchico che nei momenti di stress di una nazione genera facilmente  regimi dittatoriali che, nella nostra società, sono considerati un disvalore.  

Gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi che si sono notevolmente ampliati con l’esplosione della cultura, avvenuta circa 30.000 anni fa. Nel 2021, De Silva e altri hanno pubblicato uno studio che concludeva: “Suggeriamo che la nostra analisi supporti l’ipotesi secondo cui la recente diminuzione delle dimensioni del cervello potrebbe invece derivare dall’esternalizzazione della conoscenza e dai vantaggi del processo decisionale di gruppo, in parte grazie all’avvento dei sistemi sociali di cognizione distribuita e all’archiviazione e condivisione delle informazioni. Gli esseri umani vivono in gruppi sociali in cui più cervelli contribuiscono all’emergere dell’intelligenza collettiva.

Di fatto, con l’esplosione delle dimensioni dei gruppi umani si è verificata una diminuzione, su base genetica, del volume cranico, diminuzione associata a un decremento dell’intelligenza, ma non di quella emotiva. Tanto che Harari ha scritto: “Solo l’agricoltura ha permesso ai cretini di sopravvivere.”

Secondo alcune teorie della complessità, la presenza di individui più semplici favorisce lo sviluppo di sistemi sociali più evoluti. Pertanto, semplificare gli individui potrebbe essere vantaggioso per il bene comune della società.

Ciò dimostra quanto sia forte la tensione tra l’individuo, le sue necessità e prerogative e l’organizzazione sociale. Il punto di equilibrio tra le necessità dell’individuo e quelle del gruppo varia nel tempo, nello spazio e nella cultura, come evidenziato dalle differenze tra Occidente e Oriente estremo.

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3 commenti

  1. Devo confessare di aver letto e riletto questo articolo di Cesare Trematore almeno 4 o 5 volte se non di più. Per quanto posso capire del mio comportamento, al limite dell’ossessione, dire che l’ho trovato interessante è, evidentemente, dire una banalità. Certamente nell’articolo, almeno dal mio punto di vista, c’era molto di più del semplice interesse. Ma cosa di più? Dopo tanto “cogitare”, provo ora ad esplicitare qualche punto della mia critica traendolo da un turbinio di pensieri e contro-pensieri. Inizio dal positivo. Cesare conclude il suo contributo sulla socializzazione indicando la necessità di una “nuova sintesi tra individuo e società” dettata dal tempo, dallo spazio e dalla cultura e, aggiungo io, dalla travagliata epoca che stiamo vivendo. Concordo pienamente con questo pensiero. Arrivo, dunque, alla parte che meno mi convince, almeno nello stile se non propri nel dettaglio del contenuto dell’articolo di Cesare. Nel suo scritto la cultura sembra l’antidoto a tutto ciò che di male si può trovare nell’innato umano quasi che la cultura stessa e, in particolare, il sentimento del divino (di cui Cesare non parla), non sia parte di questo stesso innato esattamente come la tecnica e la razionalità. In tutto ciò, però, nulla di nuovo. Quest’idea è figlia della dottrina liberale che vedeva ovunque disastri nello stato di natura e nella razionalità illuministica il necessario rimedio. Sennonchè Cesare su due punti decisivi prende le distanze dalle idee liberali. Nel primo sostenendo, con argomenti pienamente condivisibili e suffragati, la natura sociale dell’uomo, piuttosto che l’individuo atomistico che giusnaturalisti ed economisti ancora oggi pongono alla base della società concepita come artificio articolato, essenzialmente, nello Stato e nel mercato. Nel secondo punto negando l’utilitarismo che spiega l’intero comportamento umano in termini di costi e benefici. A questo punto, dopo una presa di distanza così significativa, uno si aspetta un giudizio più equilibrato sulla naturale socialità dell’uomo. E invece no, il risultato della critica di Cesare all’atomismo borghese non cambia le cose in maniera significativa rispetto alla tradizione illuminista. La natura continua ad essere ostile e la cultura – concepita come una sorta di tecnica buona – resta ancora l’unica salvezza come se nelle guerre, nell’ostracismo ecc. non ci fosse altrettanta cultura che nella tolleranza, la convivenza civile ecc. ecc. In breve, quando Cesare elenca i tratti innati della socializzazione continua a vedere il bicchiere mezzo vuoto portando all’estremo gli esiti negativi dell’identità del gruppo (le guerre), dell’influenza informativa ecc. (il Bias Cognitivo), dell’ostracismo (la galera), della gerarchia (una sorta di sadismo di gruppo) ecc. Concludo: nell’ottica della mediazione tra innato e appreso è possibile che Cesare, in altri suoi articoli, abbia anche trattato dei lati oscuri dell’EGOismo e, in particolare, dell’idea culturalista dell’UOMO NUOVO che, magari a seguito di opportune tecniche liberatorie, possa concepirsi come una tabula rasa su cui l’individuo borghese o lo stato totalitario possono scrivere quello che vogliono. Rilevo, peraltro, che questo tema, sarebbe di gran lunga più attuale rispetto alla socialità che, almeno dalle nostre parti, scarseggia parecchio. Comunque sia, penso che, se vogliamo per davvero formulare idee nuove e meno disumanizzanti, dobbiamo smetterla di vedere nel nostro prossimo (società – comunità) e, più in generale, nel mondo, esclusivamente altrettanti limiti minacciosi della nostra libertà.

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  2. Un commento al commento al mio articolo. Tutto sommato non è ragionevole vedere una dicotomia fra natura e cultura. Cos’è la cultura se non una forma di adattamento, sicuramente molto sofisticata, della natura all’ambiente? La caccia è nata per soddisfare un bisogno alimentare. Poi sono nati gli strumenti per rendere più agevole la caccia, poi le leggende sulla caccia e poi i riti, gli dei propiziatori e così via. Una visione integrata di questo tipo tutto sommato risolve tanti dilemmi che a prima vista sembrano insolubili.

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    1. Concordo con Cesare. Serve evitare il dualismo. Ringrazio nuovamente per l’articolo e, qualora Cesare gradisse in futuro fornirci altri contributi, penso che saremo tutti ben contenti di ospitarli nel nostro sito e, soprattutto, nella nostra riflessione.

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