di Bruno Perazzolo

La recensione di questo film è stata motivata, oltre che dagli attuali eventi drammatici, dall’articolo di Dario Nicoli “Il Travaglio dell’occidente e le donne iraniane”.

Il film, del regista iraniano pluripremiato Jafar Panahi – attualmente in carcere con una condanna di 6 anni per essere venuto meno alla sentenza del 2010 che gli intimava di non girare più film, di non trasferirsi all’estero e di non intrattenere rapporti con i media – è una pellicola intensa la cui complessità può forse tenere lontano il grande pubblico malgrado gli elogi, pressochè unanimi, della critica (il film è stato premiato al festival di Venezia). L’intensità traspare dalla grande abilità con la quale il registra, avvalendosi di una trama elementare, di semplici riprese della vita quotidiana di un villaggio situato al confine turco e di alcune, frammentarie, scene di un film in produzione, riesce ad offrire, con estrema precisione, uno spaccato della società iraniana e dei sentimenti che l’attraversano anticipando quella che, di lì a poco, sarebbe stata la protesta delle donne e di molti uomini contro il regime teocratico – poliziesco degli ayatollah. La complessità deriva dalla struttura a matriosca del racconto in cui il film rappresenta la cornice all’interno della quale si parla della produzione di un film realizzato dallo stesso Panahi, mostrandone alcune riprese. In breve, un incastro a tre livelli la cui ridondanza può disorientare, ma anche portare alla luce con maggiore chiarezza, quasi si trattasse di un messaggio subliminale, la condizione emotiva di un intero popolo. Essenzialmente quello che la regia mostra sullo schermo è un atto di amore verso il proprio paese evidenziato dall’impossibilità “spirituale” di attraversare un confine fisicamente accessibile oltre il quale la vita in un’altra nazione sembrerebbe promettere maggiore libertà, ma anche la perdita di legami vitali. Nel medesimo tempo, la pellicola è un atto di denuncia contro il fondamentalismo incipiente e un regime poliziesco, totalitario e inquisitorio angosciante e pervasivo che ha fatto della religione uno strumento del potere politico sottraendo alle persone e alle comunità il diritto inalienabile alla ricerca e alla conservazione del buono e del vero. In altre parole emerge dal racconto come, condannando necessariamente l’arte e la fede a divenire strumenti di propaganda, a prescindere dai contenuti specifici, è la libera ricerca in sé che il totalitarismo, teocratico o confessionale, soprattutto teme.

Regia di Jafar Panahi, con Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri, Bakhtiyar Panjeei, Reza Heydari, genere Drammatico, Iran 2022, durata 106 minuti; dal 6 ottobre scorso mi risulta si possa vedere solo nelle sale cinematografiche.

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