Libere riflessioni ispirate da due saggi di Luis Dumont: “Homo Hierarchicus”, Adelphi 1991 e “Homo Aequalis”, Adelphi 1984.

di Bruno Perazzolo

Idealmente ed anche, in larga misura, storicamente, democrazia moderna e comunità si sono collocate agli antipodi. Il concetto puro di comunità poggia su una visione olistica della società i cui caratteri – l’ordine, la gerarchia (la disuguaglianza), l’appartenenza ad una tradizione (assenza di libertà) e, soprattutto, l’idea che l’umano non la si possa trovare tutto intero nell’individuo – stanno esattamente all’opposto dei valori fondativi della modernità e della democrazia.

Si spiega così abbastanza bene come – al netto della retorica celebrativa di una gloriosa istituzione che ha contraddistinto l’esistenza dell’uomo su questo pianeta sin da Homo Erectus – i democratici più consapevoli, di destra come di sinistra, abbiano sempre visto con sospetto i “ritorni di comunità” cui, puntualmente, le persone meno erudite e meno fortunate fanno appello quando, dal lato sia del Mercato sia dello Stato, le cose si mettono male e le promesse messianico – economiciste di benessere sia dell’uno (Mercato / libero scambio) sia dell’altro (Stato assistenziale / welfare) sembrano svanire nel nulla. Così, mentre le élite liberali di destra hanno sempre confidato nel mercato quale fattore di emancipazione dell’individuo dai legami comunitari, i socialdemocratici e i progressisti di sinistra, laddove il mercato “falliva”, si sono costantemente adoperati per attivare forme di supplenza e/o di supporto statale al “capitalismo in crisi”. Il mezzo, in parte[1], era ed è diverso, ma il fine restava e resta, più o meno consapevolmente, sempre lo stesso: l’emancipazione dell’IO (egoismo) dal NOI (organismo sociale).

Sennonché, le democrazie “benestanti” hanno subito, nel corso del tempo, una profonda metamorfosi. La crisi del “laissez faire” (libero mercato) e il default del Welfare State (forma dello Stato democratico che assicura il benessere “dalla culla alla tomba senza lasciare indietro nessuno”), rispettivamente nella prima e nella seconda metà del secolo scorso, hanno evidenziato come, oltre al comunitarismo, anche l’individualismo possa, di fatto, contrastare e, alla fine, persino travolgere  l’ordine democratico. Per molti versi il ‘900 è stato, da quest’ultimo punto di vista, un secolo chiarificatore delle nuove sfide che attendono il capitalismo occidentale del XXI sec.. Se n’è andato, però, il ‘900, con un ultimo sussulto; una sorta di canto del cigno dell’ideologia economica (l’idea che la struttura dei rapporti di produzione determini tutto il resto: politica e religione in primis) che ha contraddistinto, sin dall’inizio (‘600), l’intero pensiero borghese. Così, a partire degli anni ’70, proprio mentre crollavano il miti dell’economia autoregolarsi e dello Stato del benessere generalizzato, si prospettava all’orizzonte una nuova profezia salvifica: quella della globalizzazione. Il sogno individualista prendeva un’altra forma, ma non cambiava la sostanza. Lo scenario, ora, era l’intero pianeta inopinatamente colto come lo sfondo di un enorme teatro dal quale emergeva un unico, enorme movimento di uomini, di merci e soprattutto di capitale. Una specie di “paradiso in terra” dove, finalmente, la condizione liberal-borghese sarebbe divenuta universale. Gli stati totalitari si sarebbero liquefatti inchinandosi alla sovranità del libero scambio e l’infinita crescita economica avrebbe consentito ai ricchi di arricchirsi ancora di più e ai poveri di essere un po’ meno poveri. Insomma, proprio il tipo di promessa, questa della globalizzazione, capace di mettere d’accordo tutti, dai liberali di destra e socialisti riformisti, entrambi fiduciosi che una robusta crescita del PIL mondiale avrebbe consentito sia di rimpinguare il profitto sia una cospicua redistribuzione e il relativo consenso popolare.

E’ successo, invece, che dopo appena qualche decennio anche le promesse della globalizzazione, agli occhi della stragrande maggioranza della popolazione, siano sfiorite lasciando sul terreno tante “anime perse”, solitudini che vivono alla giornata e vagano disorientate e terrorizzate dal timore che, da un momento all’altro, qualcosa di tragico possa accadere a quel poco che resta del loro spazio vitale. Il clima impazzito, le delocalizzazione di un’impresa, l’intelligenza artificiale che toglie il lavoro, gli alti e bassi della borsa, un nuovo piano urbanistico, in ogni caso “deliberazioni remote”, possono, in ogni momento, cambiarti la vita senza che tu possa farci nulla. Con grande disappunto del nuovo ceto dominante “cosmopolita, colto e per bene”, questa gente manifesta un oggettivo, magari inconsapevole, desiderio di “ritorno alla comunità”. Ovvero, manifesta il bisogno di un’appartenenza fatta di vicinanza, di ordine, di protezione e di “riconoscimento reciproco incarnato” fondato su identità collettive ed élite responsabili. Tutti fattori dai quali discendono legami che, certo, possono compromettere, in certa misura, sai la libertà sia l’eguaglianza, ma che, restituendo alle persone “narrazioni condivise di prossimità, comprensibili e credibili”, assicurano il bene primario della sicurezza.

In tutto questo movimento, chi ha a cuore la democrazia e i suoi valori può vedere una minaccia oppure un’opportunità. Se i saggi di Dumont aiutano in tanti punti, su un punto mi sembrano particolarmente utili: l’umanità, a dispetto di tutti i riformatori illuminati, resta sempre la stessa: nel modo di impiegare gli utensili (tecnica) come nel culto dei morti (religione). L’idea democratica moderna nasce, invece, come utopia costruttivista dell’identità umana concepita come una “tabula rasa” su cui l’individuo razionale si illude di poter incidere qualsiasi cosa risulti funzionale al sistema della produzione e del consumo di beni. Sennonché la diseguale distribuzione delle ricchezze, ed il senso di spaesamento e di sofferenza psichica che si riscontra tra le popolazioni ci fa pensare che la stessa democrazia, nell’assecondare il disegno del grande mercato globale, proprio a seguito del suo “pregiudizio culturalista – economicistico”, abbia trascurato alcuni bisogni umani fondamentali che invece le società olistiche tradizionali sapevano soddisfare. Tra questi, in primis, il bisogno di una storia, di una morale, di un’etica delle quali sentirsi parte riconosciuta. Stranamente il cittadino globale non comprende questo bisogno e lo considera frutto della propaganda della destra conservatrice. Egli crede che la propria esistenza rappresenti una monade divina capace di conquistare sempre nuove libertà in un movimento che si proietta nell’infinito. Ma questo sogno per pochi eletti può distruggere le democrazie per la cui sopravvivenza, come sosteneva Tocqueville, è, invece, necessario che tutti possano permettersi il lusso di un sogno che non sia solo il “proprio” sogno individuale. Per la vita delle democrazie è necessario un sogno collettivo che non può essere artefatto, cioè calato dall’alto. Un sogno che, come insegnava Durkheim, può emergere solo dalle dinamiche della comunità.


[1] tutti i democratici – per quanto fossero liberali o socialdemocratici – hanno sempre riconosciuto, sia pure in dosi diverse, la necessaria convivenza dello Stato e del mercato

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