Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti

Introduzione al video di Michael Sandel
Bruno Perazzolo
La presentazione di quest’altro video di Michael Sandel “la tirannia del merito: perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”, video che raccomando caldamente (qualche mese fa ho introdotto il video “ciò che il danaro non può comprare”), insieme ad alcune considerazioni sulle recenti elezioni americane, rappresentano, entrambe, il modo migliore per riprendere e sviluppare l’argomento centrale sul quale, sin dall’inizio della sua fondazione, la nostra associazione, PensarBene, sta lavorando proponendo testi e altro materiale di approfondimento (podcast, recensioni di film e canzoni ecc.). L’argomento in questione è quello della separazione crescente tra élite e popolo che, a mio avviso, rappresenta attualmente il principale fattore sfidante dei sistemi democratici.
Parto dalle elezioni americane il cui esito, il successo di Donald Trump, mi pare oramai pressochè unanimemente ricondotto dai commentatori, in primo luogo all’inflazione e all’immigrazione irregolare e, secondariamente, ai guasti prodotti dalla globalizzazione e dalla diffusione, in ambienti progressisti, della cultura Woke. Cultura Woke incentrata sulla tutela dei diritti delle minoranze e vissuta, da una larga parte della popolazione, prevalentemente di ceto medio basso, come una minaccia alla propria identità più o meno tradizionale. A questi fattori, altri opinionisti aggiungono ulteriori cause della vittoria di Trump. Ad esempio, il tardivo ritiro di Biden dalla competizione elettorale. Altre cause che, però, a mio parere, hanno inciso in maniera marginale e che, una volta gettate nel calderone delle analisi dei mass-media, tendono più a nascondere che a chiarire i motivi essenziali della sconfitta dei democratici. Tornando, dunque, all’elenco delle condizioni prevalenti, del successo dei conservatori, mi pare di notevole interesse andare oltre l’immediatezza per cogliere, sullo sfondo, un motivo critico ricorrente che sembra fare sintesi di tutto: il sospetto, già divenuto per molti certezza, che dietro la cortina ideologica libertaria dell’apertura dinamica e cosmopolita, della tolleranza inclusiva del diverso, della complessità dei supposti, delicati equilibri democratici ecc. si celi uno stile, quello delle nuove élite oligarchiche, anarchiche e sempre più isolate e irresponsabili, che, in realtà, sancisce disuguaglianze scandalosamente crescenti, esclusioni insormontabili e, soprattutto, il disprezzo di chi, non riuscendo ad essere sufficientemente unico, mobile, creativo ecc., si accontenterebbe, da ultimo, anche di una semplice vita normale: una vita popolare.
È in questo contesto che – per come la vedo io e per quanto ho compreso del video di Sandel – una specie di parola magica collega lo stile delle nuove élite ad una realtà di effettiva marginalizzazione e esclusione che, paradossalmente, fa a pugni con “l’ideologia ufficiale” (una specie di falsa coscienza) dei nuovi padroni dell’Occidente: si tratta del concetto di meritocrazia. Nei mesi scorsi ho proposto alla riflessione dei nostri lettori alcuni documenti al riguardo. Mi riferisco, soprattutto, ai podcast sul libro di Cristopher Lasch “la ribellione delle élite: il tradimento della democrazia”. A questo proposito segnalo i più pertinenti: 1) lo stile delle nuove élite; 2) l’isolamento delle nuove élite 3) le trasformazione del sistema democratico: dalla democrazia alla meritocrazia ; 4) il ritorno del conflitto di classe
Ora, l’introduzione a questo video mi offre l’opportunità di tornare sul tema della meritocrazia con un altro autore, Sandel appunto, che, in epoca non sospetta, con grande anticipo, ha previsto quanto poi è affettivamente accaduto nelle recenti elezioni americane e, anche se con conseguenze non altrettanto devastanti, in quelle europee.
Giustamente qualcuno ha osservato che, in genere, sono i sottotitoli a rivelare l’argomento di un testo. È questo il caso anche di questo video, tratto dal corrispondente libro di Sandel. Come ho già accennato, il sottotitolo è “perché viviamo in una società di vincitori e perdenti?”. L’autore parte stabilendo, sia pure implicitamente, una differenza cruciale tra merito e meritocrazia. Il merito è indubbiamente cosa buona. Se devo farmi operare, cercherò di mettermi nelle mani di un chirurgo capace ecc. ecc. Il merito è dunque una cosa buona come lo è riconoscere e onorare il merito, anche per mezzo di un maggiore incentivo economico, in chi adotta comportamenti generalmente considerati virtuosi. Al riguardo, però, Sandel osserva come, statistiche impietose dimostrino come le nostre società democratiche, negli ultimi decenni, tendano sempre meno a coltivare il merito. Un fatto per tutti: a seguito delle crescenti disuguaglianze, la mobilità sociale, cioè l’indicatore maggiore dell’effettivo “premio al merito”, si è praticamente bloccata. Volendo semplificare si potrebbe dunque dire che, attualmente, i figli dei poveri restano poveri mentre i figli dei ricchi restano ricchi. Certo, ci sono eccezioni, ma la tendenza è questa.
La critica di Sandel, tuttavia, non prende di mira la contraddizione esistente tra l’ideologia meritocratica e la cruda realtà di una società che promuove sempre meno il merito. Si appunta, piuttosto, sulla sola meritocrazia, ovvero sull’ideologia del merito che è, essenzialmente, tutt’altra cosa. Per quanto mi riguarda, già il termine la dice lunga. Democrazia non è affatto sinonimo di meritocrazia. La prima significa sovranità del popolo, la seconda sovranità dei migliori, cioè una specie di aristocrazia. Naturalmente si può preferire l’aristocrazia alla democrazia, ma confondere i termini non è propriamente quella che si potrebbe chiamare “un’onesta operazione intellettuale”. Come avrò modo di dire, Sandel tocca questo punto indirettamente, ma con assoluta lucidità e profondità. Qual è allora l’aspetto della meritocrazia (cioè, dell’idea che, se le condizioni di partenza sono uguali, chi vince ha il merito esclusivo della sua vittoria) che, più da vicino, minaccia la democrazia? La risposta è semplice: l’arroganza delle nuove élite neoliberali che concepiscono i privilegi che discendono dal successo (ricchezza, dignità professionale, peso politico, mobilità), come qualcosa che gli è moralmente dovuto, qualcosa che, legittimamente, spetta all’individuo e all’individuo soltanto. In altri termini, se nel sistema liberale ciascuno è “padrone di sé e risponde esclusivamente delle proprie scelte”, dobbiamo concludere che, quello che riesce ad ottenere (danaro e ogni altro bendidio) dipende solo ed esclusivamente da lui. Non c’è storia, cultura, società, comunità, condizione famigliare che possa contare anche solo un pochettino. Nella meritocrazia non c’è spazio per queste “complicazioni moralisteggianti”. Non c’è spazio per il riconoscimento che qualcosa di importante ci è stato donato, che anche la fortuna, a volte, conta. In breve, non c’è spazio per la gratitudine. Se, dunque, quello che possiedo dipende solo da me, ne consegue che anche per gli altri vale la stessa cosa. In particolare, vale anche per tutti quelli che non ce la fanno a realizzare il proprio sogno. È tutta colpa loro il loro fallimento. È quello che si meritano. Se non hanno studiato a sufficienza, se non si sono diplomati o laureati, se non sono stati flessibili, se non hanno viaggiato come avrebbero dovuto o non sono sufficientemente creativi e, per conseguenza, se ora svolgono lavori duri, malpagati, scarsamente qualificati e soggetti alla permanente minaccia della delocalizzazione e della terziarizzazione, “devono ringraziare solo se stessi”.
Quante volte, occupandomi di orientamento scolastico e di alternanza scuola lavoro, ho sentito questi discorsi. A volte è capitato pure a me di farli senza accorgermi di quanto la cosa potesse essere umiliante per quei ragazzi che, per mille motivi, non potevano farcela e restavano indietro. Però, tutto questo cosa c’entra con la democrazia? C’entra eccome dal momento che, se c’è una cosa che conta nei sistemi democratici, come si vede bene nel film “Perfect days” (2023), è la dignità del lavoro, di qualunque lavoro, dal più semplice al più complesso. Poi ci può essere benissimo chi eccelle, ma il fatto di “sentire l’eguaglianza”, cioè il sale della democrazia, come una realtà concreta che va oltre ogni altra, possibile differenza di reddito, posizione sociale etc., dipende fondamentalmente dal riconoscimento, dal rispetto DOVUTO a tutti coloro che svolgono un lavoro utile per quanto possa essere umile quel lavoro. E invece cos’è accaduto? È successo che dopo un ventennio (gli anni Sessanta e Settanta) di “ideologia del sogno e dell’emancipazione universale di TUTTI da TUTTO” nell’ottica dell’autorealizzazione di ciascuno nello sport, nell’arte, nel management ecc., la maggior parte delle persone s’è ritrovata a dipendere da lavori precari, malpagati e socialmente poco apprezzati. Due film credo mostrino bene questa realtà: “Non credo in niente” (2023) e “Joker” (2019). Una realtà fatta di frustrazione prima, di vergogna poi e, infine di rabbia e rivolta contro “IL SISTEMA tutto intero”
La dignità del lavoro, però, non basta. Detta così suona a molti troppo facile. Chi, interrogato sulla dignità del lavoro, si sentirebbe, a parole, di negarla? Credo pochi! Ecco, dunque, che Sandel fornisce la “cartina al tornasole” capace di misurare l’effettivo rispetto per il lavoro. La prova sta nella mescolanza dei ceti e delle classi sociali, soprattutto nell’ambito del dibattito pubblico all’interno di luoghi terzi (quartieri, municipi, associazioni ecc.) nei quali ogni cittadino ha modo di farsi persona partecipando attivamente alla cura dei beni comuni e alle relative deliberazioni. È qui che, come si dice, “casca l’asino”. L’ideologia meritocratica, infatti, negando ogni forma di gratitudine e riservando ai migliori le decisioni fondamentali riguardanti la vita collettiva, isola le élite dal popolo trasformandole in oligarchie sprezzanti. Una cosa che le democrazie sembrano non sopportare affatto.
Grazie Bruno, hai saputo presentare l’idea di Sandel sul merito collocandola nel percorso che hai proposto in questi due anni. Emergono due “quadri”: le élite che, per diritto di censo, accedono ad uno stile di vita desiderabile fondato sul narcisismo dell’io ma senza restituire questo privilegio dedicandosi alla comunità, ed il popolo che deve faticare per ottenere qualche condizione di benessere, ma soffre di spaesamento di fronte alla distruzione del proprio mondo, condizione che toglie gusto del vivere ed alimenta uno stato di rabbia potenzialmente distruttivo. L’ideologia dell’individuo è per il popolo causa di infelicità. Dal tuo testo emergono tre parole chiave di una via d’uscita: gratitudine, comunità e lavoro. Sullo sfondo colgo una enorme domanda di senso (amore) della vita, una sorta di religione dell’esistenza “autentica”.