Don Milani e la scuola di Barbiana fondata nel 1954

Bruno Perazzolo

Per chi, come me, viene da una formazione che ha avuto nella biologia e nell’ecologia dei sistemi, due fondamentali pilastri, riconoscere nell’uomo il necessario legame con il suo ambiente naturale iscritto nei comportamenti innati e nella sua dimensione affettiva (la sua parte più antica) non è certo un problema. Anzi! Però, è palese che l’uomo non è solo questo. L’intera famiglia dei Sapiens (100.000 – 200.000 anni fa) offre grandi evidenze della presenza, diffusa e ordinaria, di utensili e di rituali religiosi. Fatti, questi, che dimostrano chiaramente, già tra questi ominidi, la presenza della competenza linguistica e, quindi, della produzione culturale: l’altra colonna della nostra umanità.

Ma cosa c’entra tutto questo con il centralismo? A mio parere c’entra, eccome se c’entra! Un paio di domande possono chiarire il punto su cui intendo argomentare. Cosa accade ad una comunità quando viene privata di uno dei suoi fondamentali fattori culturali? E se, come da più di un secolo succede in Occidente e anche altrove, la scuola, per varie ragioni, è diventata uno di questi fattori, cosa accade alla comunità locale se questa, la scuola, diventa monopolio dello Stato burocratico centrale, ovvero, né più né meno, una branca della pubblica amministrazione? La risposta viene da sé: la comunità – fondata sulle relazioni di prossimità e faccia a faccia – inaridisce, cessa di esistere e viene, a poco a poco, invasa dal mercato, dalla dilatazione di quella forma di relazione tra gli uomini che compare quando questi ultimi cessano di agire come persone che si appartengono reciprocamente, per comportarsi da individui tenuti assieme solo dall’utilità dello scambio. Quando affermiamo che i nostri paesi si sono trasformati in dormitori dove la gente fatica a riconoscersi, quando diciamo che le periferie della città promuovono l’anonimato, l’invisibilità generando ansia, solitudine, paura e aggressività, non facciamo altro che attestare questa semplice verità: senza una cultura del luogo in cui si vive, senza una competenza tecnica e rituale diffusa su tutto il territorio, la comunità locale si dissolve. E se la comunità dove gli uomini incontrano fisicamente altri uomini si dissolve, fatalmente compare l’alienazione. L’uomo si separa da sé stesso trasformandosi, di norma, in quella sorta di “accumulatore seriale perennemente insoddisfatto del mondo che abita” che l’economia politica mainstream pone come fondamento assiomatico dei propri teoremi nel momento in cui sostiene l’illimitatezza dei bisogni individuali e, con ciò, l’eterna scarsità delle risorse.   

E vengo, ora, alla meritocrazia. Premesso che meritocrazia e merito non sono la stessa cosa, la domanda è: “cosa c’azzecca la meritocrazia con il centralismo, con il declino della comunità locale e della stessa convivenza democratica?” Io penso che c’entri parecchio. Cristopher Lasch, a partire dagli anni Sessanta fino alla sua morte, nel 1994, è stato uno studioso al centro del dibattito pubblico occidentale. Il motivo del suo successo è chiaro. Il suo approccio interdisciplinare, il suo chiamarsi fuori, con intelligenza e competenza, dalle ideologie imperanti, ne hanno sempre fatto una fonte di grande e autorevole ispirazione per coloro che non si accontentano di guardare il mondo con l’occhio del conformista di gaberiana memoria. Riporto qui alcuni stralci del discorso di Lasch sulla meritocrazia: “La meritocrazia è una parodia della democrazia. Offre un’opportunità di avanzamento, almeno in teoria, a chiunque abbia il talento di approfittarne, ma le opportunità di ascesa sociale” non possono sostituire “gli strumenti della civiltà, della dignità e della cultura di cui tutti hanno bisogno, che ascendano o no. La mobilità sociale non mette in discussione il potere delle élite. Semmai le aiuta a rafforzarlo e stabilizzarlo diffondendo l’illusione che sia fondato solo sul merito. Inoltre, rende molto più probabile che le élite esercitino il loro potere irresponsabilmente, proprio perché riconoscono così pochi obblighi verso i propri predecessori e verso le comunità che sostengono di guidare. La mancanza di gratitudine dequalifica le élite meritocratiche rispetto all’esercizio della leadership. In ogni caso, ai loro esponenti non interessa tanto la leadership quanto l’essere diversi dalla gente comune, che è appunto la definizione più appropriata del successo meritocratico[1]”. In altre parole, la meritocrazia crea un abisso incolmabile tra élite e popolo, tra persone colte e competenti (gli eletti detentori del sapere) e persone incolte e dequalificate (i non eletti che non sanno). Avendo posto il principio libertario alla base della formazione morale dell’individuo, ne consegue l’idea che, fondamentalmente, ciascuno si fa da sé. La nostra vita è nelle nostre mani e, siccome siamo padroni di noi stessi, siamo, perciò, anche gli unici responsabili della nostra ricchezza come della nostra povertà. Nessuno ci regala nulla esattamente come, ciascuno di noi, non dovrebbe essere costretto, né sentirsi responsabile o in dovere di soccorrere chicchessia. Insomma, il mondo si divide in due grandi classi: gli uomini di successo mobili, metropolitani e cosmopoliti e i falliti, i perdenti. Esseri, questi ultimi, rozzi, stanziali e abulici. I primi legittimati a vivere nell’opulenza i secondi, per loro colpa, condannati all’ignoranza e alla precarietà.

Il principio meritocratico delle nuove élite opera, dunque, nella stessa direzione verso la quale si dirige lo Stato centralista. Concentrando, oltre alla ricchezza e al potere politico, la cultura che conta, cioè il nostro bene comune primario, nelle mani di pochi, oltre a ridurre il popolo a qualcosa che sempre più assomiglia ad una folla disorientata, corrompe quel sentimento di eguaglianza, civile e politica, che sta alla base della democrazia. In questo contesto, la restituzione della scuola alla comunità locale non potrà certo essere la panacea di ogni male, però potrebbe, almeno, concorrere a invertire la tendenza sia all’alienazione disumanizzante di ciò che oggi, spesso con disprezzo, chiamiamo “periferia” sia al  declino del sentimento democratico. Ovvero di quel sentimento di eguaglianza che, per esistere al di là di ogni possibile differenza economico sociale, necessita di persone che, radicandosi su un territorio e sentendo di appartenere ad una stessa comunità cui appoggiarsi, siano capaci di aprirsi al mondo intero.


[1] Christopher Lasch, La ribellione delle élite: il tradimento della democrazia, Feltrinelli Universale Economica 2001, p.

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