dal film “Metropolis”, Fritz Lang 1927
di Bruno Perazzolo
Con questo articolo, volutamente provocatorio considerata la gravità dei fatti trattati, non intendo fare “affermazioni definitive”. Al contrario, vista la complessità del tema, il mio più grande auspicio è che la critica possa migliorarne e approfondirne i contenuti.
Inizio riportando un’affermazione che, apparentemente, non c’entra nulla: la risposta di Dario Fabbri, analista geopolitico e Direttore Editoriale della rivista “Dominio”, alla giornalista che, alla TV, gli chiedeva come mai le Russia non risenta significativamente delle pesanti sanzioni economiche che le sono state inflitte a seguito dell’aggressione all’Ucraina. Secondo Fabbri, il motivo della resistenza è che la Russia, come l’Iran o la Turchia, non vive, come noi occidentali, di economia e benessere. Spero che, alla fine di questo articolo, si possa comprendere questo strano incipit.
Parto dai fatti recenti. Ragazzo di 18 anni, appassionato di lavoro e macchine agricole, muore nel Lodigiano schiacciato dalla seminatrice a poche ore di distanza da un’altra morte, questa volta nelle campagne di Latina, quella del bracciante indiano di 31 anni. Dei due, ammesso che si possa fare una macabra graduatoria, il secondo decesso sembrerebbe avvenuto in circostanze che, se confermate, ci riporterebbero, dritti dritti, ai tempi più bui e crudeli della rivoluzione industriale quando, un lavoratore che avesse subito un infortunio invalidante, oltre a non venire supportato nelle cure, veniva pure licenziato. In altre parole, come è capitato al lavoratore indiano, gettato in mezzo a una strada con l’intera sua famiglia.
CARBONE PER MIKE
M’hanno detto che nell’Ohio
sul principio di questo secolo,
c’era una donna, a Bidwell,
Mary McCoy, vedova di uno scambista
certo Mike McCoy, in miseria.
Ma ogni notte dai treni tonanti della Wheeling Railroad
buttavano i frenatori un pezzo di carbone
sopra lo steccato, nell’orto di patate,
con voci roche gridando di volo:
per Mike!
E ogni notte, quando il pezzo di carbone per Mike
batteva al muro dietro la baracca,
s’alzava la vecchia, infilava
ubriaca di sonno la vestaglia e metteva da parte il carbone
dono dei frenatori per Mike, morto
ma non dimenticato.
Ma lei si alzava così, tanto prima dell’alba, e metteva
quel loro dono via dagli occhi del mondo, perchè
non avessero noie, i frenatori,
con la Wheeling Railroad.
Questa poesia è dedicata ai compagni del frenatore Mike McCoy
(morto perché troppo debole di polmoni
sui treni di carbone dell’Ohio)
per solidarietà. (Bertolt Brecht 1920)
Con questo articolo, però, non intendo cedere alla “tentazione retorica della notizia di cronaca” che, puntualmente, riempie le pagine dei tabloid per qualche giorno con discussioni che, presto, si esauriscono in attesa della prossima disgrazia. Un fatto, per quanto “osceni” possano essere i suoi contorni, potrebbe essere anche “un fatto isolato”. Bisogna, dunque, ricorrere alla statistica se si vuole comprenderne meglio il significato.
In termini assoluti il dato complessivo resta drammatico. Nel nostro paese, muoiono, sul lavoro, in media, circa tre persone al giorno. Negli ultimi anni, tra le mille e le milletrecento l’anno. In termini comparativi, in rapporto alla popolazione, siamo sopra la media europea. Mentre su 100.000 lavoratori in Europa le vittime di incidenti sono 1,77 l’anno, in Italia sono 2,25. Certo, se si considera il dato nel lungo periodo, si può rilevare, al di là delle oscillazioni annuali, un sensibile miglioramento. Se negli anni ’60 erano 4500, negli anni ’80 intorno ai 3000, negli anni ’90 le morti bianche scendono, in Italia, a circa 2000 l’anno. Ma a cosa è dovuto questo “progresso” ? Premesso che non sono un esperto in materia e che la mia ricerca non è andata oltre la lettura di alcuni articoli e qualche saggio breve, mi pare si possa quantomeno affermare che il dato sulla diminuzione degli incidenti mortali sul lavoro non sia di facile interpretazione. Ragionevolmente mi pare si possa solo in parte attribuire alla normativa sulla sicurezza. Per esempio, l’impetuoso sviluppo del settore dei servizi, dove i rischi di norma diminuiscono, dovrebbe aver inciso parecchio. Idem per quanto concerne l’innovazione tecnologica che attualmente consente, con costi relativamente contenuti, di realizzare un maggior controllo sui processi produttivi in generale e sulla sicurezza dei lavoratori in particolare.
Arrivo al dunque che mi preme trattare. Una volta stabilito che, sia pure in questo contesto tragico, se considerato dal lato quantitativo, non tutto è negativo e che il dato statistico italiano sulle morti bianche non è poi così “scandalosamente lontano” da quello delle altre “economie avanzate”, la domanda imbarazzante che vorrei porre è la seguente: visto che il nostro paese, per quanto ne so, è l’unico al mondo ad aver riconosciuto, con lungimiranza e profondità, nel lavoro il fondamento della democrazia (art. 1 Cost.); vista l’insistenza dei padri costituenti nello specificare, chiarendolo all’art. 4 c. 2, il medesimo concetto in un’ottica partecipativa e nell’inserire, poi, entrambe gli articoli, 1 e 4 Cost., tra i primi 12 fondamentali, inviolabili e immodificabili, della nostra Costituzione, come si spiega moralmente un dato così alto dei decessi in azienda? Molti altri paesi europei, pur mancando di altrettanta “veemenza ordinamentale”, sembrano fare molto meglio di noi. Si deve perciò concludere che la questione è puramente formale? Che non fa sostanzialmente nessuna differenza tra chi inserisce la dignità del lavoro in Costituzione e chi no?
Comprendo bene, a questo punto della mia argomentazione, come possano essere tanti quelli che avvertono un certo fastidio nel veder affrontare, da questo lato, il problema delle morti sul lavoro. Etica e morale non godono di buona reputazione essendo intese, dalla maggioranza, come questioni fondamentalmente private che non dovrebbero essere chiamate in causa quando si discute di cose pubbliche. Il punto, però, è che la faccenda non sta esattamente in questi termini. Esiste una morale laica che, per semplificare[1], direi che si divide in due grandi filoni: il contrattualismo di stampo liberale – costituzionale (che sancisce i diritti della persona, standard sociali che non possono essere in alcun modo subordinati all’interesse generale: es. la libertà di manifestazione del pensiero ecc.) e l’utilitarismo improntato all’economia politica, classica e neoclassica, sempre di ispirazione liberale (l’idea che un sistema sociale bene ordinato sia quello che è in grado di procurare il massimo benessere ai suoi cittadini). Nelle aule universitarie e nei dotti convegni si sa che questa morale, a differenza di quelle tradizionali fondate sulla religione, ha la seria pretesa di porsi alla base di tutte le Costituzioni dei paesi democratici. Pertanto, la consapevolezza che nel caso del lavoro, allo stesso modo di altri principi costituzionali che qui non cito per non depistare l’attenzione del lettore, i precetti etici della nostra convivenza fanno acqua da tutte le parti dovrebbe, penso, allarmare tutti o, almeno, la maggior parte. Purtroppo, ho la sensazione che le cose non stiano così.
Concludo, allora, con quanto avevo iniziato. Cosa intendeva dire Fabbri sostenendo che la Russia, l’Iran ecc. non vivono di economia? Intendeva dire, credo, che la forza principale di questi paesi non dipende dall’andamento del PIL o dell’inflazione, ma deriva prevalentemente da narrazioni non economicistiche che alimentano i relativi popoli. Ora, si sa, le narrazioni non sono tutte eguali. Alcune sono neoimperialiste, altre universalistico teocratiche ecc. Le narrazioni che hanno fatto grande l’occidente, al netto delle ingiustizie di cui ci siamo resi colpevoli nel mondo, sono quelle cristiane e, in epoca moderna, soprattutto quelle ispirate dalla tradizione liberale i cui sviluppi contemporanei, però, sembrano alla fine approdati ad un anarchismo – utilitaristico deregolamentante in economia (liberismo) nei costumi sociali (proliferazione dei diritti civili) privo di qualsiasi risconto concettuale accattabile. Potrà sembrare strano, ma credo che le morti sul lavoro e il cinismo disarmante che spesso le accompagna, allo stesso modo della generale fragilità delle nostre virtù civiche, derivino proprio da questo: dal venir meno delle solide narrazioni del passato e dall’assenza di nuove in grado di caratterizzarci come popolo piuttosto che come una folla disordinata e disorientata. Le cause delle tragedie che quotidianamente interessano il lavoro sono certamente molte. Sono però convinto che una “nuova narrazione” che, riprendendo alla lettera gli ottimi articoli sul lavoro che già stanno nella nostra Costituzione, fosse in grado di portare, dal “formalismo della carta”, al cuore di tutti, nella normale attività delle imprese e nelle nostre famiglie e comunità, l’idea della dignità di ogni lavoro, per quanto semplice questi possa essere, darebbe una mano enorme.
[1] Per semplificare, in questo articolo non tratto della corrente popolare – personalista, né di quella socialista.
Leggendo il bell’articolo mi è sovvenuta una riflessione sul linguaggio che usiamo per indicare una grande assenza di Etica nel mondo del lavoro e sui numeri che rappresentano quantitativamente questo fenomeno. La parola è Caporalato, molto usata nei canali d’informazione, ma che non scandalizza, non suscita il dovuto disprezzo verso le prassi che riassume. Per alcuni settori, agricoltura ed edilizia, lo sfruttamento della manovalanza è un dato storico, una strategia organizzativa da nascondere per la sua illegalità, ma che alla fine si attua e si ripropone. Mancanza quindi di Etica, ma anche mancanza di legalità. I numeri riferiti dall’ISTAT sono di 230 mila braccianti che subiscono abusi e sfruttamento, con contratti deboli e paghe sotto i 15 euro. Un dato ripreso dalla giornalista Diana Cavalcoli che mi sembra doveroso diffondere: non ci sono solo uomini ma donne, sono cinquantacinque mila inserite irregolarmente prioritariamente nel settore agricolo e rappresentano un quarto dei lavoratori del settore.
Difficile non parlare anche di Patriarcato con tutto il suo peso.
Quale contro narrazione associare a questi scenari?
Cara Gabriella, in primo luogo grazie per il commento. Per quello che ho capito io, e che ho insegnato per anni a scuola, in linea con tutti i libri di testo e sin dalla prima superiore (a volte tra lo stupore dei colleghi che, malgrado l’evidenza dei testi, mi prendevano per una specie di “spietato Savonarola”), la norma giuridica si distingue da quella morale per via della sanzione. La norma penale poi si distingue dalle altre per la presenza di una sanzione punitiva corrispondente al danno collettivo che si somma a quello di un diritto individuale. L’intensità della pena dovrebbe, quindi, collegarsi all’entità del danno sociale prodotto dalla violazione della norma. Danno che, si presume, sia proporzionale alla forza del valore condiviso che il delitto ha offeso. Giunto a questo punto del programma, la mia docenza prendeva, però, una piega diversa da quella dominante nella versione scolastica della disciplina giuridica. Versione secondo la quale, a differenza delle norme giuridiche, quelle morali o etiche sono volontarie e private (ciascuno, se ci crede, si regola come vuole). In breve, sarebbero una cosa a parte. Questa nozione, che assegna il diritto e la morale a insiemi / universi distinti a scarsamente comunicanti, infatti, è in palese contrasto con un’altra nozione che viene dalla sociologia. Nessun ordinamento giuridico, e, aggiungo, nessuna società, può fondarsi solo sulla forza. Al contrario, quanto più un ordinamento è solido, tanto più si basa sul generale consenso. Ne deriva che, separare la norma giuridica, specialmente quella penale, dal suo contesto etico – morale, significa negarsi la comprensione di quella stessa norma quanto ad efficacia, rispetto ecc.. Da qui un’ulteriore conclusione: se la forza di una norma dipende grandemente dal consenso, allora – contrariamente al luogo comune che intende la norma e la politica che la produce, come altrettanti fatti pubblici mentre l’etica sarebbe un fatto privato – tra politica e diritto, basati sulla forza, ed etica e morale fondate sulla coscienza / la terza parte dell’anima non esiste nessuna netta separazione, anzi direi che esiste un rapporto gerarchico in cui l’etica, che non dispone del fucile, supporta e orienta la politica che invece ne dispone.
Se questa è la teoria, mi chiedo cosa possano significare i dolorosi fatti che anche tu hai citato. Fatti che non sono certo di oggi; basti pensare a Rosarno: era il 2008. Con il mio articolo ho cercato di riflettere sul contrasto esistente tra Costituzione Formale (principi fondamentali scritti nella carta) e Costituzione Materiale (come, gli stessi principi, trovano riscontro nella pratica) indicando in questo fattore il motivo principale di una politica sostanzialmente impotente.
Concludendo, mi chiedi a quale contro narrazione potremmo pensare. Io ritengo che mettere al centro il confronto etico sarebbe già una novità interessante rispetto alla solita retorica, più o meno sincera, sui controlli, sulle pene, la formazione ecc.. Poi sosterrei un’etica della narrazione o, almeno, contrattualista, piuttosto che utilitarista. L’utilitarista, infatti, può sempre trovare, nel maggior vantaggio collettivo, una giustificazione a qualsiasi salario e, spesso, persino alla peggiore condizione di lavoro che il “libero mercato” possa stabilire. Diverso il caso del contrattualismo e, ancora più diverso, il caso della narrazione. Se per il primo sancisce come diritto inviolabile la dignità del lavoro (che andrà poi specificata dalla norma), la narrazione include il lavoro nel sacro sottraendolo ad ogni argomento profano o del mero interesse più o meno razionale. Poichè nella tradizione contrattualista, il lavoro dipendente e i relativi diritti non hanno trovato grande spazio, mi pare che la nostra Costituzione rimandi più ad una narrazione che dovremmo riprendere, mi verrebbe da dire, “sottraendoci ad ogni ragionevole compromesso”