L’art. 1 c. 1 Cost. recita:

“l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”.

L’art. 4, in materia di lavoro, è una vera eccellenza:

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

A fronte di tanta chiarezza sorge, d’istinto, un interrogativo: imboccando quale piano inclinato siamo potuti “scivolare” da un livello tanto alto alla mediocrità del reddito di cittadinanza? Eppure il testo costituzionale è chiarissimo. Esprime la dignità del lavoro e l’autonomia della persona che nulla hanno a che spartire con l’avvilimento e la servitù cui espone l’assistenzialismo. Una spiegazione del declino forse potrebbe essere rintracciata in una particolare interpretazione dell’idea di emancipazione e/o di libertà. Nel film “l’Isola delle rose”, il protagonista, l’ingegnere Giorgio Rosa, farnetica di “libertà assoluta” che, naturalmente, fa il paio con un’emancipazione infinita da tutto e da tutti. Esattamente l’opposto della libertà che si esprime nel lavoro. Quest’ultima, infatti, impone il contrario dell’emancipazione. Richiede una scelta e l’impegno di un’intera vita. Non incentiva la leggerezza e la liquidità dei rapporti. Un essere qui essendo già altrove. Raccomanda, piuttosto, la lentezza quotidiana di un saldo procedere su una dura salita al termine della quale si diventa adulti; cioè capaci di fornire il proprio contributo al “progresso materiale e spirituale della propria comunità”. In altre parole, si esce dalla solitudine per divenire parte di una narrazione collettiva senza la quale, più o meno consapevolmente, si percepisce il disagio di una condizione di “zuccherosa, quanto perfida emarginazione”.

Ho sempre trovato, nella parabola dei talenti, una lucida metafora dei guasti prodotti dall’assistenzialismo:

Mt  25,14-30

“Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

Confesso di essere sempre rimasto impressionato dalla durezza del padrone. Ma non è forse questa la stessa pena che deve affrontare, qui ed ora, chi non riesce a fornire agli altri il proprio contributo mettendo a frutto le proprie capacità per piccole o grandi che siano? E non è forse questo lo stesso dramma che Collodi esprime nelle vicende di Lucignolo, Pinocchio e la Marmottina nel paese dei balocchi? Quando Pinocchio chiede della sua malattia, la Marmottina gli risponde per consolarlo delle sue orecchie d’asino:

“che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino, oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.”

Affiora, peraltro, in queste citazioni, un’altra possibile comprensione, non necessariamente alternativa alla già citata “libertà assoluta”: Piuttosto che una via verso l’emancipazione, l’assistenzialismo rappresenta la strada che, di sicuro, porta alla disperazione. Che poi siano lo Stato e le “grandi organizzazione di massa” che, alla maniera di Lucignolo – anziché “promuovere le condizioni che rendono effettivo” il diritto/dovere ad un lavoro dignitoso – a caccia di facili consensi, seducono il popolo con forme direttamente o indirettamente (tramite posti di lavoro fasulli e/o senza futuro) assistenziali finanziate per lo più con il debito, non cambia molto. Gli esiti sono comunque disastrosi: un paese che non si sviluppa, una democrazia in declino e un popolo – incattivito e servile – che imbruttisce sempre di più. 

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4 commenti

  1. Sono d’accordo che il Reddito di Cittadinanza “italiano”, pur nel nobile tentativo di allineare il nostro Paese alle politiche di contrasto alla povertà vigenti in Europa (da tempo), così come è stato implementato non fornisca l’avviamento all’occupabilità, che sembra invece allontanare, quanto il cosiddetto “Reddito minimo garantito”.
    Mi chiedo da tempo se il Reddito di Cittadinanza rappresenti una misura in grado di “promuove le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro, come recita l’art. 4 della Costituzione, o sia invece un investimento notevole di denaro “a perdere”.
    Uno Stato che destini risorse ai cittadini privi di reddito dovrebbe renderli innanzitutto “cittadini attivi”, ovvero capaci di partecipare alla vita della comunità in base alle proprie capacità, nella prospettiva di migliorarle costantemente, grazie proprio agli incentivi statali. Pertanto, a mio parere, dovrebbe trattarsi di un “Reddito di Cittadinanza attiva”, che si può esplicare in molteplici modi, ma non senza una compartecipazione.
    A chi percepisce il Reddito di Cittadinanza si dovrebbe innanzitutto offrire formazione (a vari livelli, in relazione all’età, agli studi pregressi, ai talenti, ecc) in modo da aumentare le possibilità di inserimento lavorativo, che dovrebbe essere cercato attivamente per interrompere l’indennità, che verrebbe sospesa anche in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro senza valide ragioni (come avviene in altri Paesi europei).
    Oppure, le risorse destinate al Reddito di Cittadinanza potrebbero fornire una serie di servizi per le fasce più deboli della popolazione (asili nido, strutture socio-assistenziali per anziani, supporto scolastico, ecc.) attivando in questo modo occasioni di lavoro.

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  2. Author

    Cara Daniela, sono molto d’accordo con le tue osservazioni. Il reddito di cittadinanza, o di inclusione, o di sostegno alla famiglia o come, in altro modo, lo si voglia chiamare, dovrebbe essere fatto come dici per i motivi che dici. Un film, tratto da una storia vera, mi pare evidenzi magistralmente tutto questo: “Si può fare” di Giulio Manfredonia, con Claudio Bisio. Lo trovi, completo, in streaming all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=0ohsHGueE6c. Il tema diventa allora il seguente: “come mai non si è mai fatto?”; “come mai si continua a non farlo malgrado la nostra costituzione parli chiaro?”
    Aggiungo un’altra riflessione. Un principio fondamentale che sta a fondamento di una solida comunità è quello della reciprocità. Non è lo scambio del mercato, ma il principio “comunista” inteso in senso ampio: “da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni” che, tradotto in termini più POP, significa qualcosa come “in questa famiglia, chi non lavora non mangia”. Come mai si è smarrito questo elementare principio di equità ben presente in ogni sana comunità? Smarrito anche da chi, magari, si riempie la bocca di popolo, persona, lavoro, partecipazione, democrazia? Smarrito quando non è difficile comprendere come il contrario della reciprocità, l’assistenzialismo, il prendere senza dare distrugge, i legami sociali primari nella stessa misura in cui rafforza la dipendenza da quelli artificiali del potere politico?

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  3. Author

    Per conto di Alberto e con il suo consenso, inserisco il seguente commento

    Ho letto con interesse ma anche con un certo stupore il tuo contributo, Bruno.
    Come non essere d’accordo su quanto così esemplarmente enunciato nell’art. 4 della Costituzione e quindi su una visione della società nella quale si possano integrare e completare vicendevolmente in una unica etica le concezioni di diritto e di dovere al lavoro.
    Il reddito di cittadinanza però a tuo avviso sarebbe un punto di caduta quasi scandaloso e tradirebbe questa etica abbassandola a un mero assistenzialismo. Hai una concezione insieme nobile e molto orgogliosa del lavoro e la esemplifichi con citazioni colte ma, a mio avviso,la trasformi in un’idea assoluta senza alternative, direi quasi senza pietà.Purtroppo la realtà non e’ così lineare ( si parlava per l’appunto delle incognite del futuro del lavoro )
    Tornando poi nel concreto e nella vita reale il reddito di cittadinanza non vuole essere una misura esclusivamente assistenziale ma si propone di essere un sostegno economico
    finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’ inclusione sociale.
    Che poi in concreto abbia funzionato solo parzialmente si deve al fatto che i Centri di avviamento al lavoro sono allo sfascio ( e grottescamente ho udito politici in carica da anni portare questo argomento per argomentare contro una effettiva funzionalità della misura per il reinserimento nel lavoro) e alla consolidata abitudine all’imbroglio da parte di una parte non piccola della società.
    Se allora ci si deve interrogare sullo scivolamento dell’etica dagli alti livelli della nostra Costituzione, mi concentrerei piuttosto su questi.

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  4. Author

    Grazie Alberto del commento che mi consente di chiarire la mia posizione. Premesso che sono d’accordo quasi del tutto con quello che sostieni, chiarisco alcuni elementi di contesto del mio articolo. Mia moglie è stata, qualche anno fa, sindaco nel Comune di Biandronno: 3500 ab circa. La situazione finanziaria era tra le peggiori in assoluto. Si deve in gran parte al volontariato il fatto che sia riuscita ad assicurare alcuni fondamentali servizi andando, in alcuni casi, ben oltre gli standard normali. Nel suo Comune di Nascita (Maccarese frazione di Fiumicino) la condizione delle strade (erbacce, rifiuti ecc.) è vergognosa ecc. ecc.. Banalmente mi sono chiesto: “ma con tutto il lavoro che c’è nella cura dei beni comuni com’è possibile che tante persone, godendo di piena salute e buone capacità, dispongano di sussidi senza fare nulla?”. Passo ora a argomenti più “concettuali”. Credo che un Istituto vada giudicato non solo per come si pone “sulla carta”, ma anche in concreto. Se la politica (destra o sinistra non fa differenza) e, ahimè la maggioranza dei cittadini votanti, fossero coerenti con l’art. 4 Cost., come si spiegano i Centri per l’impiego che non hanno mai funzionato? Eppure il concetto di FLEXICURITY non è di ieri. Non è forse questa, nei fatti, un’interpretazione riduttiva della nostra Costituzione formale? Mia madre era analfabeta. Prima di 9 fratelli, il padre a letto paralitico, è stata tolta dalla scuola e mandata a servire a 6 anni. Mio padre, con orgoglio, sosteneva di avere indossato il suo primo paio di scarpe il giorno del suo matrimonio. Dal Veneto sono emigrati in Lombardia negli anni ’50 adattandosi ai lavori più umili; eppure, paradossalmente, proprio loro mi hanno insegnato la dignità del lavoro, di qualunque lavoro se fatto bene. Si vergognavano di chiedere qualcosa senza, potendolo fare, dare nulla in cambio. E si vergognavano ancora di più ad ostentare la loro miseria per ottenere un vantaggio. Intuivano, istintivamente, che quel vantaggio conteneva una minaccia: “sarebbe prima o poi divenuto un incentivo a rimanere nella miseria non solo materiale”. Erano entrambi socialisti, più dell’800 che del ‘900. Appartenendo al popolo delle campagne, il loro socialismo era fortemente intriso di cristianesimo motivo per cui questo brano, tratto da “Il lavoro di un tempo” di Charles https://youtu.be/oVAaX5Ijf28 si adatta al loro “sentimento” quasi alla perfezione. Morale: sostenere chi si trova in difficoltà è un obbligo e un fattore irrinunciabile di coesione sociale a fronte del quale, come recita l’art. 4 c. 2 Cost., chi il sostegno lo riceve “ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il fatto che nella “costituzione materiale” del nostro paese, in tanti riescono a sottrarsi a questo dovere è, a mio avviso, un segno di perdita di civiltà.

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