di Bruno Perazzolo
Nel logo di PensarBene campeggia la dicitura “…. per comprendere l’epoca in cui viviamo con uno stile essenziale, lieve e positivo, basato sulla fiducia nel confronto comunitario aperto ed arricchente”. Nell’invito ad aderire si possono trovare queste altre parole impegnative secondo le quali PensarBene mira ad essere “una comunità virtuale di persone che si aiutano a comprendere l’epoca in cui viviamo usando la ragione e non le grida e l’insulto”. Confidando su queste attitudini della nostra associazione, provo a abbozzare qualche ragionamento su un tema, quello della “Cancel Culture”, che ho avuto modo di approcciare principalmente solo tramite incontri con amici e con una serie di brevi articoli. A questo punto del mio ragionamento mi si potrebbe subito obiettare: “ma se non ti senti adeguatamente preparato sull’argomento, perché ne tratti scrivendo un articolo?” I motivi di questa scelta sono due. Il primo: si tratta di un tema che considero molto significativo rispetto alla comprensione delle dinamiche della cosiddetta “crisi dell’Occidente”. Il secondo: prendere posizione rimanendo aperti alle correzioni e alla critica, credo sia il modo migliore per imparare e approfondire le proprie conoscenze. Esattamente come si afferma nell’invito di PensarBene.
Alcuni fatti: i movimenti che approdano alla Cancel Culture sostengono, di norma, il multiculturalismo e il valore delle differenze, in genere tratti fondamentali dei progressisti e della sinistra. Vengono però, malgrado il loro profilo culturale formalmente aperto, spesso additati come bigotti e intolleranti. Per contro, coloro che si oppongono, accusando gli epigoni della Cancel Culture di intolleranza e bigottismo, manifestano spesso simpatie per sistemi politici illiberali e autoritari. Al riguardo l’ultimo, eclatante episodio, al limite del grottesco, è stato quello della “scesa in campo” di Putin contro Cancel Culture a sostegno della “libera manifestazione del pensiero” dell’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling.
Come spiegare questi fenomeni che i filosofi, penso, ricondurrebbero al termine “aporia”, ovvero a un’evidente difficoltà del pensiero?
Provo ad avanzare alcune ipotesi interpretative sollecitando, in chi mi leggerà, le eventuali correzioni. A partire dagli anni ’60 abbiamo assistito ad una svolta culturale profonda nei sistemi democratici e nei movimenti per i diritti civili. Soprattutto nelle piazze italiane si gridava “studenti e operai uniti nella lotta”, ma “la superficie” di questo slogan, nascondeva una frattura dettata da due diverse idee di libertà. Alla maniera ben illustrata nel film “Spartacus” di Stanley Kubrick, gli operai tendevano a concepire la libertà come aspirazione ad una vita dignitosa, emancipata dallo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”; gli studenti, invece, avevano in animo un concetto molto diverso e ben espresso nel film “l’incredibile storia dell’isola delle rose”, regia di Sydney Sibilia, dove il protagonista, l’ingegnere Giorgio Rosa, precursore delle nostre nuove élite occidentali e della deregulation globale, sogna la libertà assoluta. La svolta, ovviamente, non è però stata solo “estetica”. Gli ha fatto eco un intero “filone saggistico” la cui espressione di punta può essere probabilmente ravvisata nella cosiddetta “French Theory”: Foucault, Derrida, Lyotard ecc.. In breve, il nuovo approccio, che sta alle fondamenta della “postmodernità”, sostiene il prevalere, nella specie Homo Sapiens, della cultura sulla biologia sino alla cancellazione di quest’ultima come fattore esplicativo dell’identità umana e delle sue vicende storiche. Insomma l’idea è che l’uomo corrisponda ad una sorta di “Tabula rasa”. Poiché, come scrive Harari nel suo interessantissimo “Sapiens. Da animali a dèi”, la cultura è partorita sempre dalla nostra “sconfinata immaginazione”, ne deriva che ogni ordine sociale si fonda su una “COSTRUZIONE DELLA REALTÀ” frutto della nostra libertà venendo perciò a mancare di ogni fondamento oggettivo, in assenza del quale, qualsiasi imposizione di una particolare visione del mondo operata da un soggetto verso un altro soggetto, diventa pertanto arbitraria e sinonimo di oppressione. Ecco, dunque, come il sogno della libertà assoluta del nostro ingegner Rosa, si traduce, ipso facto, nel formale diritto di ogni soggetto (EGO) a realizzare la propria fluida “costruzione del reale”. Ciò, naturalmente, si impone, in primis, nelle relazioni sociali che vengono così ridotte all’anarchia pura e semplice dal momento che ogni autorità, sia essa politica o dettata dalla tradizione o dal carisma di un capo, in virtù degli argomenti appena esposti, viene così “ontologicamente delegittimata”.
Da quanto appena detto alla delegittimazione della stessa democrazia il passo è breve. La storia, infatti, offre ampie testimonianze dell’oppressione universale nel cui ambito, da sempre, i Sapiens sono stati, al tempo stesso, attori protagonisti e succubi vittime. Una regola cui neppure la democrazia sfugge stanti le sue evidenti colpe passate e presenti: il colonialismo, la guerra nel Vietnam, l’imperialismo nordamericano, lo strapotere delle multinazionali e di altre lobby più o meno criminali ecc… Come uscire da questo museo degli orrori immaginando una società futura autenticamente civile? Qual è il primo, indispensabile passo per costruire una sorta di paradiso in terra dove ciascun individuo possa esprimere pienamente se stesso senza dover subire l’oppressione delle “finzioni sociali” e dei relativi apparati?
La risposta è semplice: serve manipolare il linguaggio. Cioè lo strumento tramite il quale noi fabbrichiamo i nostri mondi e le nostre differenti personalità al loro interno. Occorre intervenire sul linguaggio e i simboli che esso veicola tramite una serie di ellissi e/o di neologismi volti a depurarlo da ogni locuzione che possa ledere la soggettività altrui o lasciar trasparire l’ombra di un conflitto che, una volta innescato, porterebbe inevitabilmente alla violenza e alla prevaricazione. Quanto un’operazione del genere possa risultare fragile lo dimostra il bel film “Carnage” di Roman Polansky del 2011. La pellicola mostra bene come, al di là del “Politically Correct”, l’emotività irrefrenabile trabocchi nel linguaggio non verbale generando una sorta di “guerra di tutti contro tutti” persino a partire da eventi banalissimi come la lite tra due bambini. Come dire: “le belle utopie lastricano sempre la strada verso l’inferno”.
Alcuni sostengono che gli estremi di un continuum si tocchino dal momento che una quantità eccessiva trasforma la qualità stessa dei fenomeni. E’ probabile, pertanto, che anche in questo caso l’eccesso di tolleranza sia alla fine approdato a quella manifesta intolleranza che tanto rende simili gli epigoni della Cancel Culture ai loro detrattori più radicali che intolleranti lo sono sempre stati in maniera persino ostentata. In entrami i casi la vittima è l’idea stessa di democrazia.