Dopo il polverone, un periodo di “tregua trasformante”
Il periodo di tregua che stiamo vivendo – governo Draghi, tentativo di uscita dalla crisi pandemica, preparativi per gestire al meglio i progetti Next Generation UE – sta facendo bene alla politica: la necessità dei partiti di maggioranza di unirsi entro una quasi unità nazionale, e di quelli all’opposizione di motivare in senso ragionevole le proprie posizioni, segna una decisa discontinuità rispetto al gran polverone del periodo precedente caratterizzato dalla ricerca spasmodica della visibilità mediatica.
Nonostante talune turbolenze, nella sostanza, le scelte rilevanti –gli scostamenti di bilancio, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, e presumibilmente anche le riforme strutturali cadenzate per i prossimi mesi – vengono assunte con il consenso di una larga maggioranza parlamentare. É oramai una regola: mentre i tempi ordinari vedono in scena un teatrino politico fatto di tatticismi di breve respiro, i passaggi storici in cui si imprime una svolta al Paese sono quelli in cui si crea una “coesione nazionale” fortemente voluta dalla Presidenza della Repubblica e sostenuta da un ampio consenso nel Paese.
È come se i partiti – ma anche le istituzioni: si veda l’avvilente caso delle Regioni durante la pandemia – fossero inadeguati ad assumere decisioni strategiche. Diversi di loro pensano che questa parentesi sarà presto chiusa, e tutto ritornerà come prima; al contrario, il mutamento radicale impresso dall’attuale governo sta già provocando un doloroso travaglio nelle forze politiche che ne influenza le strategie e l’identità.
Ma chi sono, in sostanza, le attuali forze politiche?
Il mondo degli attori che operano sulla scena politica nazionale risulta piuttosto variegato:
- c’è una componente di matrice “di sinistra” (PD, LEU) che ha sostituito l’oggetto dell’antica rivoluzione, passando dalla strategia sociale a quella dei diritti individuali. È una mutazione legata ad una perdita progressiva del tradizionale radicamento popolare basato sui territori e sul mondo del lavoro, sostituito dall’ascolto quasi esclusivo di ceti intellettuali che spingono ad adattare le istituzioni alle motivazioni e ai desideri dei singoli e dei gruppi, senza alcun riferimento a norme uniformi e universali. È una curiosa ideologia, un misto di statalismo e individualismo da cui è assente la visione comunitaria, e che rivela uno sfondo nichilista.
- La componente populista è formata da soggetti variegati, tendenzialmente di destra: la Lega, che ha recentemente effettuato una radicale inversione dall’iniziale federalismo separatista ad un nazionalismo popolare, mostrando una preoccupante labilità ideologica ed una confusa strategia internazionale, è ora impegnata nel difficile equilibrio tra la loquacità senza freni del suo leader e la volontà di accreditarsi come forza affidabile; vi è poi il M5S che, come l’ “Uomo qualunque” degli anni ’50, dopo un’iniziale posizione populista e antipolitica, ha subito una parabola discendente da quando è divenuta forza governativa, abbandonando il principio dell’intenzione a favore del principio di realtà, ma soffrendo sempre di scarsa profondità di pensiero; troviamo inoltre Fratelli d’Italia, una formazione collocata nel solco della destra italiana tradizionale, ma con una tattica di tipo nuovo che possiamo chiamare “patriottica”, capace di attrarre l’anima conservatrice ingenua del popolo italiano, tessendo alleanze ambigue con formazioni violente dell’estrema destra antieuropea ed antiglobalizzazione.
- Il resto è composto da Forza Italia, un partito in declino che al tempo dei sui trionfi elettorali aveva perseguito senza grande successo la “rivoluzione liberale” e che oggi si è dato il compito di correggere la deriva populista degli alleati; vi sono infine piccole formazioni di “centro” con qualche buona idea ma segnate da un’intrinseca incapacità di unirsi entro una casa comune dotata di una solida identità e di un discreto peso politico.
Questo quadro sopravviverà anche nel prossimo futuro oppure verrà abbandonato come residuo di un tempo oramai superato, per lasciare il passo a nuovi soggetti politici?
La risposta a questo quesito, deriverà dal modo in cui gli attori vecchi e nuovi sapranno interpretare le tre sfide del nostro tempo: il tema dell’identità, della democrazia e dell’economia.
La sfida dell’identità
Molti analisti, confermati dalle vicende delle democrazie progredite, prima fra tutte la Brexit, indicano la sfida dell’identità come la questione centrale del confronto politico dei prossimi anni.
In sostanza, il nostro tempo vive la disillusione dell’utopia della modernità, quella che associava la felicità all’idea liberale di cittadinanza, che corrisponde ad un individuo solitario che si erge come decisore della propria esistenza avendo a disposizione molteplici opzioni, come fa il consumatore di fronte alla scelta di beni e servizi. L’esperienza comune smentisce questo nesso; piuttosto della felicità, si vive lo sradicamento dal mondo amico, derivante dall’accelerazione del tempo che porta all’alienazione, cioè a non volere realmente ciò che stiamo facendo, a sentirci estranei ai non luoghi in cui viviamo, come il criceto condannato a correre continuamente nella propria ruota.
Questa sfida viene letta in due modi differenti: dal lato progressista si sostiene la necessità di aggregare gli individui secondo categorie etniche e di genere, promuovendo uno spazio comune centrato sulla lotta per il riconoscimento. Dal lato conservatore emerge invece una critica nei confronti di un’idea astratta di cittadinanza che sradica l’individuo dal suo ambiente concreto, storico e religioso, insieme alla necessità di difendere il “senso comune” ed il tradizionale modo di vita delle popolazioni.
La sfida della partecipazione
Il conflitto fra le due posizioni lascia emergere tentazioni antidemocratiche: la parte progressista è tentata da una deriva intollerante in base all’idea che nessuno che non sia componente del gruppo-vittima può prenderne le parti (accusa di “appropriazione”), così che la politica non riguarda più ciò che uno pensa, ma a quale gruppo appartiene, e ciò porta alla fine di ogni discussione ed alla rivendicazione di gruppi decisionali non eterogenei, escludendo i rappresentanti delle categorie “oppressive”. A sua volta, la posizione conservatrice, nel momento in cui giunge al potere, come nel caso dell’Ungheria e della Polonia, mette mano ad un sistematico smantellamento delle prerogative democratiche dello stato, sottomettendo la magistratura al governo e imbavagliando la stampa per farne il megafono della maggioranza.
La sfida dell’identità gestita dalle “due intolleranze” conduce ad un indebolimento del carattere democratico delle nostre società perché, come ci ricorda Hannah Arendt, gli individui chiusi nelle loro sfere di bisogni e diritti, finiscono per “cadersi addosso”; «ciò che unisce i cittadini è invece il loro mondo comune e la loro volontà di creare uno spazio politico dove le loro differenze possono essere espresse, articolate, contestate ed eventualmente risolte in maniera democratica. Nessuno si può dire felice senza possedere la sua parte di felicità pubblica; nessuno si può dire libero senza avere la sua esperienza di libertà pubblica».
La partecipazione si lega al radicamento nella comunità, quel bisogno dell’anima umana che Simone Weil considera il più importante e misconosciuto: «mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice». Indicando come partecipazione naturale quella che scaturisce dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente.
La sfida della nuova economia
Il PNRR è uno strumento formidabile per imprimere una svolta al nostro Paese e prepararlo ai tempi nuovi. Si tratta di un vero piano politico nei cui programmi si legge il destino dell’Italia entro una prospettiva di inclusione europea. Questi perseguono obiettivi rilevanti dal punto di vista etico: la sostenibilità perseguita tramite la rivoluzione verde, la transizione ecologica e la mobilità; l’innovazione tramite digitalizzazione e competitività; la valorizzazione della cultura, dell’istruzione e della ricerca; l’inclusione e sociale e la salute.
Il Piano si regge su una scommessa storica: suscitare una mobilitazione delle forze generative presenti nella nostra società, così da imprimere una spinta che ci scuota dal fatalismo scettico, dalle pratiche corporative e clientelari, dalla insensibilità delle burocrazie e dall’ambiguità della politica che frenano la vitalità del Paese.
Sarebbe un errore pensare che tutto ciò possa accadere automaticamente come effetto dell’investimento finanziario: serve invece un rinsavimento culturale, morale e spirituale che apra una stagione del risveglio a cui tutte le componenti della società – cittadini, corpi sociali, istituzioni – possano partecipare fornendo il proprio contributo con lo stesso spirito dei costruttori che ha caratterizzato le precedenti rinascite dell’Italia e dell’Occidente.
Due caselle vuote
La stagione del risveglio ha bisogno di un quadro politico adeguato alle tre sfide indicate; perché questo possa basarsi su un’alternanza costruttiva adatta al tempo nuovo, è necessario che siano riempite due caselle che oggi risultano drammaticamente vuote:
- una forza progressista popolare che comprenda il desiderio di appartenenza e di stabilità dei costumi di vita, rilanciando i territori e le forme naturali di associazione come spazi di vita amica per persone dotate di radici e legami di comunità;
- una destra identitaria democratica che prenda le distanze dalle sirene illiberali e si assuma il compito di rinnovare le istituzioni sollecitando una partecipazione democratica mossa da un sincero amore per la verità e per la crescita comune nel confronto aperto e fecondo.
La nuova politica non sorgerà da sé: il nostro è un appello ai cittadini liberi e forti perché si mettano in gioco per la rinascita del Paese.
Dal momento che la sfida dell’ambiente viene menzionata all’interno della sfida economica, condivido pienamente le tre sfide, tra loro connesse. Non è possibile coglierne una soltanto. Occorre affrontarle tutte insieme in un unico progetto politico – culturale. Fa benissimo, quindi, il testo redazionale a menzionarle chiaramente. La mia perplessità riguarda le “caselle vuote”. Certo sarebbe bello vederle tutte piene, ma dubito che questo passa accadere. Nelle crisi c’è sempre una parte che emerge e una che, pur declinando, resiste. In genere, la probabilità di un esito positivo richiede che il vecchio soccomba al nuovo. Pertanto, di casella vuota, tenderei a vederne una sola. Una casella che dovrebbe essere occupata da una diagnosi e da una terapia. Da un’analisi profonda dei motivi di crescente debolezza dei sistemi democratici capace di generare una terapia originale. Una “nuova sintesi” che non potrà certo venire da vecchie ricette e obsoleti rimedi -“l’eterno ritorno dell’eguale” – ciclicamente riproposti da scuole di pensiero e forze politiche esauste che per decenni non hanno saputo risolvere nemmeno uno dei maggiori problemi del nostro paese, che, tra quelli democratici, rappresenta forse l’anello più debole.
Che i cittadini (il popolo) siano ben disposti verso cambiamenti culturali e politici anche radicali lo si è visto, credo, in diverse occasioni e sempre con maggiore frequenza a partire dal 1992 con la Lega Nord e poi con il PD in versione renziana sino al successo dei Cinque Stelle nel 2018. Lo si vede ora con l’emergere progressivo di Fratelli d’Italia davanti al quale inquieta la relativa sterilità e, forse, anche la mancanza di coraggio intellettuale del fronte che più convintamente si richiama alla grande tradizione democratica dell’occidente.