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Dario Nicoli
Smentendo i brevi barlumi di ottimismo suscitato dai dati del 2015-17 e dalla frenata del 2021-23, di nuovo la curva demografica del nostro Paese ha ripreso a scendere. Il numero di figli per donna è ora di 1,2, un valore che fa del nostro popolo, assieme a quello spagnolo, il più sterile di tutto l’Occidente. Ma il calo del 3,4% rispetto all’anno precedente imprime un’accelerazione ancora più accentuata alla caduta della natalità. Segno che non abbiamo ancora toccato il fondo dell’inverno demografico e che potremmo presto raggiungere il non invidiabile primato mondiale della Corea del Sud, all’ultimo posto con 0,8 figli per donna.
Se ne lamentano gli imprenditori sempre più in difficoltà nel reperire i collaboratori di cui hanno bisogno visto che quasi la metà dei posti di lavoro disponibili rimangono orfani di candidati, invocando a gran voce un aumento di giovani immigrati; se ne lamenta il mondo della scuola che vede con grande preoccupazione la continua riduzione degli iscritti, la cancellazione delle classi, la chiusura delle scuole nei borghi. Qui da anni domina il silenzio, in quanto nell’ora di ricreazione non si sentono più le grida dei bambini, mentre sono scomparsi i ragazzi che giocano nelle piazze.
Ma a colpire è la rassegnazione che si coglie tra la gente comune, un atteggiamento differente dal disinteresse di chi scuote le spalle perché egoisticamente concentrato sul proprio piccolo mondo; è piuttosto una disillusione per partecipazione, in quanto si avverte una consonanza tra il crollo delle nascite e il senso di straniamento del vivere che si prova, accentuato dalle tragiche notizie di giovani che compiono violenze su coetanei o addirittura uccidono senza mostrare poi segni di pentimento. Ed è frequente sentire la frase “di fronte a questo ti passa la voglia di mettere al mondo un figlio”.
Com’è possibile che questo desiderio, che è perfettamente naturale, sia assente dalla maggioranza delle coppie che si trovano nell’età feconda? “Naturale” significa che mettere al mondo una nuova vita è – o dovrebbe essere – un gesto insito nel sentimento d’amore che unisce un uomo ed una donna e nel patto di vita insieme che hanno concordato. Se non viene compiuto, significa che c’è qualcosa che fa da freno, ma di cosa si tratta? cosa blocca il dinamismo generativo di un intero popolo?
Pesano in primo luogo le questioni sociali: il costo degli asili nido e delle baby-sitter, la difficoltà nel trovare l’equilibrio vita-lavoro ed altro ancora fanno del figlio un “impegno” che grava quasi totalmente sulle spalle della donna.
Ma c’è anche una questione riguardante il tipo di vita che si vuole condurre: i dati sulla denatalità suggeriscono che sono molte le coppie che hanno inserito nel loro accordo l’esclusione di un “terzo” in quanto romperebbe un equilibrio fatto di intimità, di piccole e grandi vacanze per liberarsi dalle tossine dello stress quotidiano, di spazi individuali in cui rinchiudersi quando se ne sente l’esigenza.
Occorre poi aggiungere il tono generalmente negativo che emerge dai messaggi si social, che ci disegna come un popolo di infelici: storie di minacce e di denunce a non finire, ad ogni grave notizia segue un profluvio sterminato di interventi in cui ci si indigna e si accusa questi o altri, con uno sforzo che non sembra prevedere alcuna interruzione.
Il nostro sembrerebbe un popolo che odia se stesso, sull’orlo dell’autodistruzione. Oppure che vive il proprio benessere (ma lo si può chiamare ancora così?) come senso di colpa alimentato dalla paura di perdere il piccolo mondo in cui siamo abituati a stare, ma anche dalla paura della stanchezza esistenziale, di non sapersi più entusiasmare per qualcosa che valga di più del nostro io.
Ma c’è un dato che va in controtendenza: l’ultima ricerca Istat ci dice che i giovanissimi vedono il loro futuro in coppia (74,5 per cento), la quasi totalità dei quali (72,5 per cento) pensa al matrimonio. Il desiderio di avere figli è condiviso dal 69,4 di loro, e colpisce il numero limitato di chi vorrebbe il figlio unico, soltanto l’8,8 per cento, la maggioranza propende per due, mentre il 18,2 per cento pensa a tre o più figli.
Ma un ragazzo su tre dichiara di aver paura del futuro.
Come possiamo proteggere l’ultima generazione affinché non assimili il sentimento di vita straniato così diffuso tra le precedenti?
Articolo molto interessante e, direi, esaustivo sia per la parte relativa ai dati pertinenti al nostro paese, sia, soprattutto, per quanto riguarda i molteplici fattori che incidono sul fenomeno. Sicuramente pesa l’individualismo, prova ne sia che già nello scorso secolo e, in ambienti borghesi, credo anche molto prima, la tendenza a vivere prevalentemente nel presente portava a svalutare, con il passato, anche il futuro. A parità di condizioni rispetto al nostro modo di concepire il tempo che passa, però, penso che in questi ultimi decenni, più che lo scarso interesse al futuro, sia la paura dello stesso che stia diventando non solo il fattore preponderante, ma anche una causa “non del tutto irragionevole”