Conversione e fondi mirati per un’economia giusta e sostenibile
Al cuore della crisi politica in corso, al di là dei tatticismi e protagonismi, c’è la direzione da imprimere all’economia mediante i fondi della Next Generation Italy, un argomento di rilevanza epocale che si può paragonare per ampiezza degli investimenti solo al piano Marshall, ma allora a guidarlo c’erano gli americani mentre oggi questo ruolo spetta a noi italiani.
Si tratta di un compito “da far tremare le vene dei polsi” perché viene svolto in una situazione connotata da tre criticità: mancanza di un’esperienza di politica di sistema per il rilancio del Paese, debolezza del ceto politico chiamato a svolgerla, natura assistenziale o perlomeno protettiva della gran parte delle richieste provenienti dalle corporazioni ma anche da ampi strati di cittadini.
Ma vi sono anche fattori favorevoli che attenuano queste criticità, e possono far ben sperare nell’esito positivo dell’intera operazione: la spinta generativa che sempre fa seguito alle crisi globali, la consapevolezza della responsabilità straordinaria che riguarda tutti, ognuno al proprio livello, infine l’essere sotto gli occhi dell’Unione europea e del mondo e quindi la necessità di mostrare le nostre doti migliori.
Abbiamo pensato di aprire su questo importante argomento un confronto pubblico, scegliendo la domanda “Sarà durissima, ma davvero ce la possiamo fare?”, partendo da tre interrogativi collegati alle questioni in gioco: la visione da adottare per il medio-lungo periodo, la strategia su cui orientare i fondi pubblici, ed infine il punto più delicato ovvero i cambiamenti (conversioni) che spettano allo stato, alle corporazioni ed ai cittadini.
Li presentiamo di seguito, associando ai testi tre video che consideriamo molto stimolanti per la riflessione.
Quale visione merita di essere assunta per l’economia dei prossimi anni?
In primo luogo, occorre abbandonare l’illusione di poter riprendere da dove ci eravamo lasciati. Le uscite dalle crisi, infatti, non sono mai “ripartenze”: sono migliori o peggiori rispetto al punto di inizio, a seconda che accolgano o meno gli insegnamenti maturati. Il primo dei quali riguarda proprio la consapevolezza che non si tratta di aggiustare, e foraggiare, un sistema economico sano e razionale, ma di imprimere una svolta radicale – non partendo da zero, ma valorizzando le risorse positive esistenti – ad un tipo di sviluppo che cammina avendo come punto di riferimento quasi unicamente l’incremento del PIL. È un modo di procedere che non tiene conto dello scontento generale circa il modello della nostra economia, non si confronta (se non retoricamente) con le questioni cruciali che ci interpellano, prima di tutto il lavoro, i giovani, l’ambiente, l’equità, manca di un valore-chiave in base al quale suscitare l’adesione dei cittadini, specie l’entusiasmo ed il protagonismo dei giovani.
Il valore della proposta “Economy of Francesco” sta nella visione, davvero lungimirante, nell’autorità che la propone, infine nel fatto che si rivolge ai giovani come protagonisti di un patto generazionale che li impegni ad “incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.”
L’economia, lasciata alle sole forze del mercato, genera una progressiva esclusione di popolazioni e di individui considerati “scarto” sociale, e questo è un grave problema che richiede la creazione di istituzioni di inclusione, prima fra tutte quelle orientate ad un lavoro dignitoso, dotato di valore per la comunità e per sé.
Viene proposta un’impostazione strutturale e decisionale non alla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici, ma in grado di correggere i modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, e orientata alla promozione della vita in tutte le sue manifestazioni e allo sviluppo umano integrale.
Il Papa non si rivolge unicamente al non profit, come se il privato fosse collocato nel novero dei “cattivi”; la sua è invece una svolta verso un’economia giusta e sostenibile, non utopistica ma realistica, riferita al qui ed ora, che contempla tutti i soggetti economici del mondo profit ed anche lo Stato. Il realismo sta nella consapevolezza della necessità di un cambio, e nella convinzione che è ora il momento giusto per perseguirlo.
Una visione non da “ora X”, ovvero un atto politico dall’alto che dovrebbe generar tutto d’un colpo una conversione dell’intero modello economico e sociale, ma un soprassalto di coraggio e responsabilità di avviare processi, che nelle parole del Papa significa tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze.
Non solo un’economia responsabile per il bene dei giovani, ma una visione dell’economia come cultura e come patto, capace di agire con i giovani come protagonisti di una “normalità” da vivere e costruire come vocazione.
È questo il contenuto del videomessaggio che vi proponiamo di ascoltare.
Quale strategia adottare per l’utilizzo dei fondi pubblici?
La questione delle politiche pubbliche per lo sviluppo, di grande rilievo anche in tema di impresa e lavoro, deve superare gli stereotipi dottrinali sul rapporto stato/mercato (compresa la ricetta keynesiana, oramai inadatta) e concentrarsi sul concetto di “creazione di valore” e sull’idea della missione come problema-sfida con obiettivi concreti intorno al quale far convergere l’intervento pubblico insieme a quello privato, rispettando i ruoli reciproci.
Il valore non viene creato solo nell’impresa privata, mentre allo stato spetterebbe solo un intervento di aggiustamento o di redistribuzione. Diversi esempi nel mondo, ed alcuni anche in Italia, mostrano invece che anche il pubblico può, e deve generare valore se vi è una capacità di progettare gli interventi avvalendosi di una storia di politiche di innovazione (medicina, energia, beni culturali, made in Italy, piattaforme digitali, informazione…) e che impegnano tutti i settori tramite missioni chiare e sfidanti. Purché si tratti di investimenti pubblici, e non solo sussidi, che siano da stimolo anche per l’impresa privata.
La possibilità di avviare in Italia politiche pubbliche per il rilancio – e non solo per la ripartenza – passa per tre condizioni, tutte assai impegnative:
- la presenza di un ceto politico che sappia perseguire vere e proprie missioni di rinnovamento dell’economia del Paese e non solo interventi assistenziali basati su un mix di ideologia e consenso (il caso del reddito di cittadinanza è emblematico di come non si deve procedere);
- la capacità della Pubblica amministrazione nell’adottare uno stile dinamico ed effettivamente stimolante per la rinascita dell’economia e della società;
- la possibilità di realizzare una reale partecipazione di tutti i soggetti in gioco pubblici e privati, evitando il solito metodo top-down in quanto incapace di dialogare con le forze vive del rinnovamento, di cui vanno invece sollecitate le qualità generative.
Tutti temi affrontati con molta competenza, obiettività e capacità persuasiva, dalla prof.ssa Mariana Mazzucato nella seguente video intervista in tema di politiche per lo sviluppo.
Quali sono i cambiamenti che, indipendentemente dai fondi, spettano allo stato, alla società ed ai cittadini?
Le tre indicate in precedenza sono condizioni molto impegnative perché, richiedendo di superare i vizi storici del nostro sistema-Paese, esigono un risveglio culturale e morale prima ancora che finanziario. Infatti, la possibilità di evitare che il grande investimento europeo connesso al programma Next Generation UE si traduca in una mera operazione redistributiva, peggio ancora con caratteri clientelari, dipende dalla capacità del Paese di essere fedele al meglio della sua tradizione, quella che emerge solitamente quando ci troviamo “sull’orlo dell’abisso”.
L’idea, iscritta nei documenti governativi, secondo cui si debbano combattere le nostre principali criticità tramite una distribuzione di un’enorme quantità di fondi senza una concomitante strategia complessiva di rinnovamento, porterebbe ad accentuare i nostri difetti e probabilmente aggiungerne di nuovi.
Non si tratta solo di riforme, ma di vere e proprie “conversioni” delle istituzioni e dei costumi che si devono perseguire senza costi.
Eccone alcune:
- Puntare chiaramente su politiche attive del lavoro invece che passive, superando la fase di congelamento del mercato del lavoro ed adottando un mix di servizi formativi e di accompagnamento all’inserimento lavorativo e di risorse per rendere i disoccupati attrattivi per le imprese che ne fanno richiesta.
- Riformare la giustizia riducendo i tempi dei processi specie di quelli civili.
- Superare il ridicolo balletto stato-regioni messo in scena (senza vergogna) in questi mesi in modo che siano chiare le competenze e relative responsabilità.
- Riformare il fisco riducendo la pressione sul lavoro, unificando la pletora di tasse e gabelle, e realizzando un rapporto chiaro e stabile tra stato e cittadino.
- Superare la quota 100, con le necessarie e motivate eccezioni senza però incrementare le certificazioni di invalidità.
Circa la riforma della Pubblica amministrazione va detto che ogni intervento economico deve essere preceduto da un cambiamento centrato sulla responsabilità ed i risultati. Qui c’è la scuola, dove maggiore è l’intento occupazionale generico senza però un’idea di organizzazione, della sua missione e della valutazione dei risultati intesa come supporto al principio di responsabilità.
Presentiamo un’interessante video intervista a Roberto Spano, Executive Chairman della società cooperativa cagliaritana Kitzanos che si occupa di innovazione sia in ambito privato che pubblico.
Partendo dall’esempio del nuovo ponte di Genova, l’intervistato sostiene la radicale differenza tra procedure e processi, dove le prime sono finalizzate all’adempimento (“ho fatto quello che dovevo”) mentre i secondi inseriscono ogni soggetto entro una catena di responsabilità efficace (“ho concorso al raggiungimento del risultato”). Egli propone ad ogni tipo di organizzazione di fare forza sull’appartenenza e sulla coesione per affrontare la tempesta in corso né subendola né con la fuga, ma con il coraggio di navigare il mare burrascoso, così da essere spinti dalla sua provocazione verso un posto imprevisto che ci obbliga a ripensarci ed a riproporci in modo nuovo.
Rispetto ai contenuti proposti, merita, credo, una particolare sottolineatura il seguente punto: “Le tre indicate in precedenza sono condizioni molto impegnative ……. esigono un risveglio culturale e morale ….., la possibilità di evitare che il grande investimento …. Next Generation UE si traduca in una mera operazione redistributiva …. con caratteri clientelari, dipende dalla capacità del Paese …. che emerge solitamente quando ci troviamo “sull’orlo dell’abisso”. Aggiungo che l’essere “sull’orlo dell’abisso”, toccare il fondo, non basta. Serve che nel DNA dell’organismo, nella “biodiversità” del patrimonio culturale di una paese emergano nuove risposte sino ad oggi rimaste recessive e/o periferiche. Ad oggi l’unica sintesi originaria mi pare resti quella populista – sovranista. Il campo democratico non ha saputo proporre che frammenti di diagnosi e relative terapie. Riguardo a questa drammatica “assenza di generatività” del fronte riformista, ritengo che il Governi Draghi rappresenti l’ultima opportunità, una sorta di tempo supplementare concesso a chi, avendo a cuore il meglio della nostra tradizione occidentale, si sente impegnato nella ricerca del nuovo che serve, nelle idee, nella politica e nelle persone.
In questa direzione un “piccolo” contributo credo possa venire dalla radice della nostra comunità “PensarBene”. Nel documento fondativo “2019, passeggiata ai Pizzoni” avevamo individuato LA BELLEZZA come chiave di volta del perimetro esagonale di idee entro le quali cercare soluzioni originali alla crisi culturale. Credo, pertanto, che, oltre al digitale e alla transizione ecologica, questo dovrebbe essere il settore dove investire “DEBITO BUONO”. Siamo il paese al mondo più ricco di paesaggio, arte, biodiversità. Investire su un turismo di qualità, sostenibile, lontano dal cemento naturale-culturale credo possa costituire il volano di una crescita che diventa, finalmente, vero sviluppo per noi e per tutti quelli che vorranno venire ad apprezzare quel che di meglio abbiamo da offrire. In questo ambito abbiamo imprese, associazioni e una marea di buone pratiche finora tanto celebrate nella retorica ufficiale quanto poco valorizzate rispetto al potenziale di cui dispongono.
Pienamente d’accordo. Il campo democratico non può puntare solo sulle istituzioni e sul denaro del Nex Generation found, ma dovrebbe avviare un lavoro culturale, di respiro non elitario ma popolare, generativo di un modello di economia sostenibile.