di Bruno Perazzolo

In Italia, e non solo, la diffusione dell’autolesionismo tra gli adolescenti è impressionante: tra il 17 e il 41 %. Il fenomeno è poi spesso accompagnato dal consumo di droghe e alcool la cui estensione è, probabilmente, anche maggiore. L’articolo di Silvia Grigolin, “i neonati piangono”, ne evidenzia alcuni fattori fondamentali ai quali, credo, sia possibile aggiungerne altri due o tre non meno rilevanti. In premessa, mi sembra importante l’affermazione che il filosofo Galimberti fa all’inizio del video “il disagio giovanile nell’età del narcisismo”: il problema non è psicologico, ma culturale, intendendo, con ciò, che all’origine del fenomeno sta la nostra cultura e solo dopo viene la psicologia. Grigolin, giustamente, punta il dito contro l’iperprotezione; indica, poi, da parte dei giovani, “il non sentirsi all’altezza”. Sembrerebbe una contraddizione (se uno è protetto come fa a non sentirsi all’altezza?), ma non è così! Il punto è che entrambi, genitori e figli, sono, di norma, salvo i pochi che ce la fanno per davvero, vittime della “ideologia del sogno”. Ideologia ben rappresentata nel film di Muccino “la ricerca della felicità”. Ideologia secondo la quale la realtà è solo un ostacolo da piegare al proprio desiderio. Dunque, se non i genitori, almeno i figli devono farcela ad arrivare al traguardo. Ecco, allora, questi genitori protettivi, trasformarsi in tifosi accaniti, faziosi e, spesso, subdolamente esigenti (autoritari come dice bene Silvia). Ma c’è dell’altro. Il sogno, per essere veramente tale, deve essere originale, quindi individuale. Deve uscire dagli schemi del già visto. Soprattutto deve prevedere un vincitore o qualcosa che ci arrivi molto vicino. Come già accennato, nello stesso video, opportunamente, Galimberti parla del disagio giovanile nell’età del nichilismo e Grigolin, nel suo articolo, rileva come il problema riguardi maggiormente le persone sole. Non può che essere così! Se il mondo diventa un posto dove onore e gloria sono riservati a pochi, se diventa una specie di corsa ad ostacoli da vincere ad ogni costo, se necessario anche con l’imbroglio e persino con l’autoinganno tipico di chi vuole sempre aver ragione e non sopporta la frustrazione, è chiaro che le vittime saranno molte. Se, come dice la canzone, solo “uno su mille ce la fa”, ideologia a parte, è chiaro che in molti – non potendo più confidare su un senso collettivo, su un sogno accessibile a tutti, che il nichilismo contemporaneo, da tempo, ha cancellato dalle nostre esistenze – dovranno accontentarsi, come dice Vasco, di “vivere” una vita piena di amarezza nella quale, a rialzarsi dopo la caduta, saranno necessariamente in pochi rimanendo poi tutti, vincitori e perdenti, comunque sempre soli.

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5 commenti

  1. Due articoli molto interessanti (questo e “I neonati piangono”). Sull’iper protezione non saprei come esprimermi dal momento che non conosco abbastanza situazioni familiari per dire come avviene, ma, riguardo la seconda parte dei due articoli, trovo che sia vero che si imposta -pericolosamente- la vita su “sogni/obiettivi” che devono per forza essere originali, perché altrimenti la vita non avrebbe senso, non ci si sentirebbe “realizzati”. Sono d’accordo nel dire che oltre ad esserci il pericolo di cadere e non riuscire a realizzare questi “sogni”, c’è anche il fatto che questo porta a “dare importanza a delle cretinate” (come ha ben detto la Grigolin) che finiscono per tenerci lontani, impedire lo sviluppo dell’affetto all’interno della famiglia, come se i figli fossero un oggetto di prestigio, come una auto di lusso da mantenere sempre in ordine e riparata, e questa sia appunto l’unica cosa di cui preoccuparsi riguardo a loro. Perciò li si delega a baby Sitter, centri estivi (che per carità conoscere i coetanei è importantissimo)… Convinti così di aver espletato bene la propria funzione di genitori. Questa è proprio una cosa a cui stavo pensando ieri per caso: se non sarebbe forse più giusto smetterla di impegnarsi in mille cose, e stare più vicino ai figli, non per soddisfare i loro bisogni materiali (quello lo devono imparare da soli, a proposito di iper-protezione), ma per tessere con loro delle relazioni autentiche. Del resto si può aver raggiunto gli obiettivi più impensabili del mondo, ma se non si ha nessuno con cui condividerli vale a poco, ed è molto triste.

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  2. Author

    Cara Sara ti ringrazio del commento che condivido pienamente e che, spero, visto che tocca tanti fattori, avremo modo di approfondire ulteriormente, magari anche con tuoi contributi al nostro blog.

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  3. Questo articolo tende a spostare il piano di riflessione dal punto di vista psicologico a quello più ampio aprendoci a nuovi canali di riflessione propositiva. Il professor Perazzolo rimanda l’attenzione ad un video di Galimberti che ci offre le chiavi di lettura per cogliere cosa stia succedendo in questo mondo attuale. Purtroppo il giovane che si fa volutamente del male spesso sta cercando una via per anestetizzare il dolore. Il taglio sulle braccia vuole coprire una sofferenza più profonda e intima, quello che viene percepita come troppo forte e che “non smette”. Lo stesso giovane/ giovane adulto, se al “taglio” associa l’abuso di sostanza, spesso sta cercando di coprire un sentire che è anche di smarrimento e sfiducia, lo sballo può essere cercato per questo. Il tossicomane è un’anima fragile rimasta impigliata ad un’età dello sviluppo slegata dall’età anagrafica. È una teoria della retrogenesi applicata ad altro, me ne rendo conto, eppure la relazione educativa con la persona con problema di dipendenza mi porta a queste riflessioni. Come se in un certo punto del suo sviluppo si fosse inceppato qualcosa. Nel toccare questi temi che ci conducono in territori bui, Galimberti indica anche la strada. L’individuo costruisce mappe mentali, cognitive, capacità di cogliere e gestire sentimenti e affetti dal tessuto socio culturale che lo circonda. È da questa consapevolezza che dobbiamo partire. Se è vero che è il contesto che crea uno smarrimento verso il mondo tale da ricorrere in taluni casi a gesti sconsiderati, può essere anche lo stesso contesto che ci ospita sul quale lavorare e poter ripartire, magari proprio come si suggerisce qui, dal mondo più limitrofo, circostante per ritrovare un terreno che sia fertile perché solidale, che indichi il tragitto ispirando fiducia, che permetta incontri e scambi, offrendo sostegno. E’ nel piccolo mondo intorno a noi che possiamo coltivare speranza e infonderla. C’è una bella frase di Gandhi che mi viene in mente a tal proposito, tratta da “L’arte di vivere”: “…se ognuno facesse regolarmente il proprio dovere verso i vicini, nessuno al mondo rimarrebbe senza assistenza. Pertanto chi serve il suo vicino, serve il mondo intero”. Per trasmettere cultura di accoglienza e come vivere insieme non c’è bisogno di volare lontano, basta osservare col cuore chi ci è accanto. Le abilità sociali, la capacità di trovare punti di incontro, di superare le difficoltà di ogni giorno, sono tutte competenze legate al saper stare al mondo ed è il tessuto socio culturale di appartenenza che può trasmetterle. E’ il tessuto del quale tutti noi facciamo parte e nel quale possiamo fare la differenza.

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    1. Grazie Silvia. Anche questo commento mi sembra molto interessante e mi parta a chiarire un punto. Dire che la il disagio dei giovani ha una radice culturale, non significa negare la dimensione psicologica. Per come la vedo io la cultura, intesa in senso lato, rappresenta il contesto delle relazioni con gli altri nell’ambito delle quali è possibile, spesso (se il problema non è il DNA), comprendere in modo più completo la “psicologia del singolo”. Ciò soprattutto quando si tratta di condotte molto diffuse. In questo senso condivido soprattutto il punto delle relazioni di prossimità il cui sviluppo, però, dipende a sua volta da fattori culturali più ampi. Per es. la fabbrica un tempo era il luogo dove potevano svilupparsi forti relazioni di solidarietà. L’ideologia della mobilità e dello slegame e la diffusione del lavoro precario hanno ampiamente depotenziato questi luoghi.

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