di Dario Nicoli

Se guardiamo alle reazioni dei movimenti ecologisti, la conferenza di Glasgow sul clima è stata un insuccesso in quanto Cina e India hanno imposto all’ultimo momento di sostituire l’eliminazione dell’uso del carbone con una più generica riduzione, ed anche per la mancata approvazione di un meccanismo di risarcimento dei danni provocati dai paesi che contribuiscono maggiormente all’innalzamento del clima. Ma se confrontiamo la Cop26 con le precedenti conferenze, emergono diversi risultati positivi: innanzitutto l’emergenza climatica si è finalmente imposta tra le priorità delle politiche mondiali, inoltre il fatto che la stessa riduzione dell’uso del carbone, una delle principali cause dell’effetto serra, è entrata per la prima volta nei temi dell’intesa dei quasi duecento paesi, infine è stato regolamentato il mercato internazionale dei crediti di emissione eliminando le ambiguità dell’accordo di Parigi del 2015. Senza dimenticare l’importanza di accordi separati sulla riduzione delle emissioni di metano (oltre 100 paesi) e sul blocco della deforestazione (40 paesi), e l’impegno bilaterale di Cina e Stati Uniti nella lotta al cambiamento climatico.   

Questa duplice lettura corrisponde anche a due linee di pensiero che si combattono da sempre nell’area di coloro che considerano prioritaria la politica contro il global warming: da un lato troviamo la posizione dei radicali che vorrebbero decisioni drastiche ed immediate, dall’altro vi sono i gradualisti che puntano su un’intesa inclusiva comprendente tutti i paesi, specialmente quelli che influiscono maggiormente sull’innalzamento del clima, sulla base di un piano di impegni per tappe progressive.        

La polarità tra radicali e gradualisti trova riscontro anche nel campo della ricerca: da un lato il gruppo Climate action tracker prevede che con l’attuale accordo le temperature globali aumenteranno di almeno 2,7 gradi, mentre l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) calcola che, se tutti i paesi porteranno a termine gli impegni assunti, nel 2100 avremo un incremento del riscaldamento globale pari a 1,8 gradi, una posizione più vicina allo scenario “desiderabile” (1,5) rispetto a quello “catastrofico” (2,4). Pur in presenza di questo duplice quadro previsionale, occorre ricordare che lo stesso Climate action calcolava che nel 2015 ci sarebbe stato un aumento della temperatura di 3,6 gradi; ciò conferma che ci stiamo progressivamente allontanando dallo scenario peggiore e muovendoci in un’area critica, ma non letale per il pianeta. È un dato importante che dovrebbe consigliare di non fare di ogni conferenza una cadenza del tipo “ora o mai più” e di tenere maggiormente conto della progressione positiva verso impegni comuni a tutti i paesi coinvolti. Nel frattempo, tre sono le questioni che si impongono nella lotta al riscaldamento globale, senza cadere in politiche di decrescita che porterebbero a rivolte sociali di grandi dimensioni con il risultato di bloccare il processo politico in atto: la strategia dell’elettrificazione verso eolico e solare fotovoltaico, ma comprendendo anche altre tecnologie a basse emissioni, incluso il nucleare dove accettabile; la riduzione dei consumi tramite la diminuzione dei voli, l’utilizzo più intenso dello smart working, l’abbassamento dei limiti di velocità in autostrada e il controllo delle temperature negli edifici; infine la ricerca nel campo delle tecnologie CCS di cattura e stoccaggio di CO2 così da sottrarla alla quota rilasciata in atmosfera.

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1 commento

  1. All’articolo di Dario, che esprime molto bene l’approccio gradualista” avrei due annotazioni critiche da fare. La prima che, tempo permettendo, cercherò di sviluppare in un contributo a parte, riguarda il gradualismo in sé e per sé. Non è detto che funzioni sempre. La seconda, non meno importante della prima, è la seguente: come ha accennato implicitamente il Presidente del Consiglio Draghi, andando a visitare i giovani di Save the Children (https://www.ilmessaggero.it/video/politica/mario_draghi_ragazzi_punto_luce_save_the_children_roma-6340517.html), occorre separare il livello dell’azione politica istituzionale da quello dell’agire dei movimenti. Sono i secondi a tracciare il solco, la prospettiva di lungo periodo, di norma tramite uno strappo, un salto quantico, un cambiamento di paradigma necessariamente radicale. Un esempio per tutti. Si pensi al ’68. I movimenti che maggiormente l’hanno caratterizzato non hanno mai ottenuto risultati sostanziali all’altezza della loro domanda politica immediata. Quello che invece hanno pienamente realizzato è stato il cambiamento dei costumi, dello stile, cioè del fondamento più profondo della vita quotidiana oltre che del sistema politico concepito nel lungo periodo. In questo senso, giustamente, Draghi evidenzia l’importanza basica dei movimenti dei giovani sul tema del clima allo stesso modo in cui, aggiungo io, sono importanti le migliaia di imprese che operano in questa direzione, a partire, per esempio, dal cosiddetto, movimento di ritorno alla terra”

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