È tempo di liberare la maestria degli insegnanti

https://pixabay.com/photos/school-classroom-students-children-8980534

Dario Nicoli

In questo inizio di nuovo anno scolastico, a differenza dei commentatori concentrati in preferenza sui “problemi della scuola”, vedo negli insegnanti e nei dirigenti che incontro un sentimento promettente, un misto di apprensione e di attesa, unito ad un più vivo desiderio di incontro ed una maggiore chiarezza su come porsi con gli studenti. Anche a causa dei fondi PNRR, essi vengono da un anno di bulimia progettuale e di ubriacatura di corsi di formazione che hanno prodotto una quantità di incombenze indirette, suscitando in loro, nel migliore dei casi, un’acuta nostalgia per l’autentico incontro umano con i propri ragazzi.

Il tempo estivo ha donato loro una finestra di vita più lieve tra affetti, luoghi ed esperienze (si spera) stimolanti e rassicuranti. Senza dover adottare l’approccio tipico delle professioni più “scientifiche”, fatto di diagnosi e di piani di intervento, la condizione della vita lieve ha favorito in loro quel flusso di coscienza spontaneo e fluido fatto di immagini ed emozioni riguardanti studenti e colleghi. In alcuni momenti, questo “non ho più pensato alla scuola” ha donato loro uno stato di grazia, da cui è riemersa la loro passione educativa, la dedizione verso i propri studenti, uno sentimento di compagnia se non proprio di amicizia professionale verso i propri colleghi.

La scuola, dal dirigente scolastico fino al ministro, può valorizzare questa disposizione promettente degli insegnanti se diviene consapevole del proprio difetto di posizionamento, che provoca una grave sconnessione tra le domande del nostro tempo e una struttura tecnodidattica che assorbe una parte considerevole delle risorse di tutti coloro che vi lavorano in impegni che non riguardano direttamente la relazione con gli studenti e la cooperazione con i colleghi, ovvero l’habitus appropriato di un’opera culturale svolta nello spirito dell’educazione.

Il termine “tecnodidattica” non si riferisce alla didattica che fa uso di tecnologie, cosa meritevole se bene impostata, bensì al suo rovescio: riguarda tutte le didattiche, e gli apparati che se ne occupano, che non procedono sollecitando le esigenze profonde dell’alunno – il desiderio, la volontà, il gusto, il riconoscimento, ovvero le forze della conoscenza viva mosse dagli adulti che se ne prendono cura, e provocando tutti quei piccoli miracoli che fanno illuminare gli occhi e scaldare il cuore – ma che pensano al curricolo come ad un dispositivo  programmato fatto di adempimenti entro un ginepraio di piani, piattaforme, schede e rubriche. Tutto provocato da un Ministero che ritiene in tal modo di imprimere sugli insegnanti una “spinta gentile” affinché eseguano quanto stabilito dalle innumerevoli linee guida.  

L’insegnante non è un impiegato, ma un misto di artista e di artigiano; la sua è una professione vocata che promana da una speciale chiamata che viene da fuori e che agisce dentro di sé come un vento che la scuote ed una passione che la riscalda.

Che si manifesti come una certezza avvertita sin da piccoli, o nel momento della scelta del percorso degli studi, oppure da adulti come conversione del proprio cammino lavorativo, la vocazione insegnante si pone sempre la risposta ad una chiamata a prendersi cura della crescita di altre persone tramite la cultura.

La tecnodidattica si è impantanata entro una burocrazia di nuovo tipo ed ha generato in modo assolutamente imprevisto uno stato di straniamento negli insegnanti, quando invece, per valorizzare quel sentimento promettente, sarebbe assolutamente necessario risvegliare la loro maestria, molto più ricca e feconda degli interventi degli specialisti che hanno affollato le scuole negli ultimi anni.

È tempo di liberare la maestria degli insegnanti, delle figure intermedie e dei dirigenti, affinché possa emergere la ricchezza della loro personalità professionale come esseri umani aperti alla totalità delle cose, capaci di suscitare negli studenti il desiderio di una vera conoscenza del mondo svolta in un ambiente ricco di relazioni favorevoli con compagni ed adulti, che possa consentire quella protezione e quelle esperienze che permettano loro di scoprire il segreto insito nella proprio io e di trovare la strada del personale cammino di compimento nel mondo.

È tempo di una vigorosa opera di alleggerimento della cappa di progetti e innovazioni a getto continuo che grava sulla scuola e la ricopre di pensieri infecondi, da sostituire con occasioni calde perla cura di sé degli insegnanti, di animazione di vere comunità tra colleghi che – almeno in alcuni momenti cruciali – si stimano e si aiutano nel lavoro quotidiano. È questa il posizionamento giusto per una scuola che desideri fare cultura educando.

Le esperienze più significative, veri segni epifanici della scuola viva, mostrano la fecondità di uno stile che punta a sollecitare l’intelligenza naturale degli allievi: la ricerca a partire da domande intelligenti, l’intuizione, l’imitazione, l’azione buona, l’intelligenza comune (della comunità), la ricerca di senso, lo spingersi continuamente in avanti.

Ogni volta che si vuol fornire ad adolescenti e giovani risposte bell’è fatte a domande mai emerse da loro, con il solo compito di ripeterle, si raccolgono frutti mediocri e stentati, ma quando si tenta di suscitare in loro il desiderio di verità e li si stimola a cercare, capire, trovare gusto nel conoscere veramente, accadono avvenimenti che sorprendono e che consolano.

6 commenti

  1. Author

    Un inno a riscoprire la dignità dell’insegnamento e della pratica della professione docente (maestria regolata dalla consuetudine piuttosto che dal diritto positivo) costantemente vilipesa e minacciata da una burocrazia soffocante assetata di controllo

    1. Dici bene. Il valore della consuetudine sta nell’insegnamento inteso non come adempimento ma tentativo di entrare in una relazione feconda con i suoi studenti, trovando la strada giusta per una conoscenza viva.

  2. Bellissimo articolo, vero, toccante. Grazie! Noi li abbiamo conosciuti ” I maestri dei nostri tempi”. Nel bene e nel male. Persone capaci di entrare nell’animo dei ragazzi. Persone che avevano bisogno di capire per poter aiutare, che non davano troppa importanza ai bravi, pur gratificandoli, ma che prestavano maggiore attenzione ai meno bravi, cercando anche dei modi per coinvolgerli maggiormente nell’attività scolastica, pensando magari di farli cambiare di posto, dal fondo dell’aula a metà, con delle sciocche scuse del tipo ” per sentire meglio la tua voce”. La prima cosa da fare era “sentirli” per farli sentire “considerati”. Il primo passo conquistare la loro fiducia mettendosi a disposizione con il giusto atteggiamento di educatore.

    1. Cara Donata, è commovente la scusa dei maestri del passato per avvicinare alla cattedra i “meno bravi”. Facevano inclusione senza nè PNRR nè linee guida…

  3. Mi trovo d’accordo con Dario Nicoli. I miei figli che frequentarono la scuola elementare pluriclasse di un paesino , fortunatamente, ebbero una ottima base preparatoria per i successivi cicli scolastici grazie ad insegnanti eclettici che seppero coniugare cultura e manualità. Ma, già si stava burocratizzando il sistema di insegnamento con schede varie nell’intento di demoralizzare gli insegnanti e non proprio condiviso dai genitori, nell’intento di far chiudere il plesso scolastico, per carenza di bambini i cui genitori preferirono iscrivere il proprio figlio in altro istituto scolastico. E l’intento riuscì perché la scuola pluriclasse fu irrimediabilmente chiusa e si ricorse al pulmino scolastico per portare gli scolari in un’altra scuola dove vi era l’esigenza di bambini per non soccombere alla chiusura.

    1. Così abbiamo avuto la scomparsa degli scolari nei paesini di montagna.Il silenzio delle loro voci ha dato un colpo fatale al declino delle aeww interne.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.