Denis de Rougemont, federalismo culturale, introduzione alla lettura

Bruno Perazzolo

Nel 1930 José Ortega y Gasset scriveva “La ribellione delle masse”. Un saggio che diventerà subito un classico, un capolavoro da molti considerato non meno rilevante del “Contratto sociale” di J.J. Rousseau (1762) o del “Capitale” di K. Marx (1867). Tra le tante riflessioni cruciali contenute nel testo, spicca il concetto di “uomo massa”. Concetto che C. Lasch riprenderà nel suo “La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia” (1995). Un altro libro fondamentale per chi fosse veramente interessato alle vicissitudini e al futuro della democrazia. Ma chi è l’uomo massa? Secondo Ortega l’uomo massa è il tipo ideale dell’individuo moderno, incapace di sentirsi soggetto a qualsiasi obbligo che non abbia scelto; potenzialmente anarchico, non comprende “quanto sia fragile la civiltà e quanto possa essere tragica la storia”; credendo ciecamente che “domani sarà sempre meglio di oggi” si “concentra sul proprio benessere e confida in un futuro di possibilità illimitate e di libertà totale”. Incapace di meraviglia e di rispetto, l’uomo massa è, insomma, “il figlio viziato della storia umana“.

Ora, di fronte ad una tale illustrazione, uno pensa immediatamente al proletariato. Contadini sradicati dalla terra, alla quale appartenevano da secoli, per essere gettati, una volta privati di ogni legame con il proprio passato, nelle fauci del mostro industriale dell’800. Invece no! Per Ortega il prototipo dell’uomo massa è lo scienziato, il tecnico, il professionista, insomma l’uomo che padroneggia alla perfezione il suo angolo di sapere in maniera direttamente proporzionale alla sua ignoranza di tutto il resto. In altre parole, l’uomo massa è l’uomo antisocratico per eccellenza. Colui che, in forza della sua “dotta specializzazione”, crede di sapere e meritare tutto ciò che “E’ SUO” ignorando l’umiltà del sapiente che, alla fine, “sa di non sapere” e sa anche che quel poco che abbiamo ci è stato in larga misura, sempre, prevalentemente donato.

Questa lunga premessa per dire che, di sicuro, l’intellettuale Denise de Rougemont (1906 – 1985) non appartiene certo alla categoria dell’uomo massa. La sua opera più conosciuta, di ampio, duraturo e meritato successo, “L’amore in occidente” (1939), per chi avesse modo di avvicinarla, dimostra una cultura letteraria classica raffinatissima che viene completamente ribadita in “Federalismo culturale” (1963). In realtà si tratta, in quest’ultimo caso, di una conferenza, successivamente tradotta in un breve testo scritto di una quarantina di pagine, che de Rougemont tiene all’Università di Neuchâtel nel 1963 in occasione del 25° anniversario dell’Istituto Neuchâtelois. Al centro del suo discorso sta l’Europa e, la cosa veramente interessante è che, malgrado sia trascorso più di mezzo secolo e nel frattempo siano intervenuti un sacco di cambiamenti non di poco conto, gli argomenti svolti da de Rougemont risultano, al tempo stesso, profetici e di perfetta attualità. Due in particolare.

Il primo parte dalla critica dell’idea di Europa degli Stati Nazione (Stati Unitari) troppo piccoli per assicurare la propria difesa e prosperità economica e troppo grandi e gelosi della loro sovranità per dare vita sia ad un patto federativo forte e stabile sia per concedere spazio adeguato alle “piccole nazioni” che sono, da sempre, la fonte del dinamismo culturale dell’Occidente. Da qui l’inevitabilità della seconda opzione: quella di un’Europa sospinta dalle “piccole nazioni”, ovvero da centri urbani, regioni, università che, alimentando una fitta rete di scambi e collaborazioni, possano creare le condizioni per un salto di qualità: un forte patto federativo limitato nei contenuti e, perciò, capace di assicurare e persino incrementare quelle differenze culturali e politiche che già da qualche millennio rappresentano la particolarità e la forza del Vecchio Continente. In altre parole, uniti sì, ma non uniformati.

Il secondo argomento consiste nella classica proposta geniale che non ti aspetti: un “cambiamento concettuale”: il passaggio dall’idea romantica di radice culturale (conservare sé stessi, genius loci) a quella di insediamento culturale quale fattore distintivo di una specifica comunità. In questo caso la critica parte dall’osservazione che, di norma, le supposte radici sono, in realtà, “nuclei di sapere” che vengono da lontano, per non dire che sono proprio stati del tutto importati da paesi stranieri. Un caso per tutti. Si dice, a ragione, che il cristianesimo sia la “radice dell’Europa”, ma il cristianesimo non ha affatto origine in Europa, come ogni buon cristiano sa bene. Da qui la proposta di de Rougemont del termine sostitutivo di “insediamento”. Un pensiero, come un “seme alato”, vaga nell’aria finchè trova, se lo trova, un luogo accogliente. Un luogo che, quasi si direbbe, stava in attesa di quel seme. Un luogo dove quel pensiero, venuto da chissà dove, potrà mettere radici, potrà mettere su casa, dove potrà abitare generando una nuova comunità che, facendolo proprio e professandolo, darà così origine ad un nuovo centro culturale. È, questo, un processo del tutto naturale che accomuna tutti gli esseri viventi. In biologia si chiama biodiversità; in fisica neghentropia o entropia negativa. Un processo che si oppone all’entropia, ovvero alla tendenza di tutte le cose al disordine che significa, in fisica come in biologia,  omologazione, indifferenziazione. Ma cosa c’entra tutto questo con lo Stato Nazione (Stato Unitario) e con l’Europa? C’entra eccome! Se infatti, secondo de Rougemont, la relazione tra dinamismo culturale e Stato Nazione è cruciale è proprio perchè lo Stato Unitario (Stato Nazione) costituisce un ambiente radicalmente ostile alla differenziazione culturale dal momento che, una delle sue maggiori nefandezze, consiste proprio nell’arrogante pretesa di stabilire a tavolino, di controllare dall’alto, dal vertice di una rigida burocrazia, fordista e giacobina (il parallelismo storico con la fabbrica taylorista è del tutto evidente), qualcosa che, per sua natura, non può essere controllato. Alla fine, lo Stato nazione sembra, dunque, inseguire un’utopia, che facilmente, anche oltre l’eventuale patina formale della democrazia, potrà trasformarsi in una sostanziale tirannia.

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1 commento

  1. Grazie Bruno, testo molto interessante che mi ha sollecitato queste riflessioni: un patto federativo si riferisce a stati indipendenti che si federano in una Federazione, come la Svizzera. L’Italia è un caso a rovescio: una repubblica che, oltre al governo nazionale, è composta da vari soggetti o “autonomie” (regioni, province, comuni, comunità montane) di cui alcune con statuto speciale e quindi con poteri più ampi, motivati da condizioni particolari tra cui una lingua, una cultura ed una storia peculiare che lo stato nazionale riconosce e preserva. Ora si sta cercando di introdurre un’autonomia differenziata, ma questo movimento, per non non fare dell’Italia un coacervo di realtà locali con identità e gestioni discordi, richiederebbe una revisione dell’ordinamento complessivo (e quindi della Costituzione) che attribuisca allo Stato alcuni poteri fondamentali (politica estera, militare, fiscale e di bilancio, LEP dei servizi, controllo e intervento sussidiario…) ed agli altri soggetti compiti più ampi e soprattutto “responsabili” (come l’obbligo del pareggio di bilancio). Questa è la via ordinamentale, che vedo però molto complicata e – viste le motivazioni di chi la propone, che considero limitate a questioni di potere – a rischio di svuotamento del fattore sostanziale, ovvero l’idea di vita buona o patto etico che dovrebbe essere alla base della Repubblica. E’ qui che dovremmo intervenire noi, partendo dal basso e dalla sostanza, ovvero dal compito culturale connesso all’animazione delle comunità territoriali ed all’esercizio dell’autogoverno nel quadro dei poteri esistenti. Si tratta della tappa del municipalismo, quella che apporta nuova linfa al patto democratico che ha fondato la Repubblica che però si è logorato nel corso del tempo per varie cause, tra cui l’individualismo e il venir meno dell’habitus virtuoso del popolo e dei suoi governanti.

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