Dal punto di vista neuroscientifico, è stato constatato che il cervello, quando si trova in uno stato di tranquillità, o è impegnato in attività piacevoli, magari in interazione costruttiva con gli altri, è più produttivo. Questo perché può gestire l’interconnessione neurale con più ordine, realizzando nuove connessioni tra i concetti, pervenendo ad un apprendimento significativo. Nei periodi di stress o di ansia invece, quando dobbiamo prestare attenzione a molteplici stimoli il cervello, per difendersi dal sovraccarico, va in disconnessione compromettendo il funzionamento dell’attenzione e della memoria. Pertanto chiudere i libri per un po’, pur rimanendo nel contesto scuola, cioè nell’olimpo dei libri, permetterebbe al cervello/mente di apprendere altro senza fatica.
Dal punto di vista della socializzazione, nell’arco di un anno non abbiamo fatto altro che lamentarci di quanto ci siano mancate le relazioni sociali, soprattutto ai giovani e ai bambini, essendo stati deprivati di una componente fondamentale per un sano sviluppo. Dunque una ventina di giorni, anche solo per soddisfare questo bisogno, potrebbero essere un investimento per il futuro dei nostri ragazzi.
Non si sta proponendo di tenerli a scuola per lasciarli alla libera improvvisazione, è banale ricordare che vanno guidati in questo loro stare insieme, ma non necessariamente per recuperare pezzi di programma e, mi sentirei di dire, neanche trattenerli su un progetto predefinito dall’insegnante, ma da una loro proposta, che potrebbe emergere dal confronto nel gruppo di cui anche l’insegnante fa parte.
Sul versante degli apprendimenti, pur sapendo da tempo che la cultura non ha a che fare con la quantità di cose che sappiamo, ma con l’uso che facciamo delle cose che sappiamo… sembra che cambiare strada sia ancora troppo rischioso. E come se fossimo prigionieri di un senso del dovere intriso di fatica e sacrificio, in cui non è contemplato il piacere del fare e il divertimento che ne deriva. Per cambiare rotta non contano neanche i dati che l’ISTAT ci restituisce sui livelli di istruzione in Italia: anche quelli del 2019 dipingono una situazione catastrofica dal punto di vista culturale, eppure…continuiamo a pensare (sia come insegnanti che come genitori) che sia importante “finire il programma o la programmazione”.
Mi viene in mente una frase a me cara dello psicologo Skinner: la cultura, che è “ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto”. Cosa resta quando il sapere disciplinare viene dimenticato? Forse la voglia di imparare! Come si insegna? Magari per 20 giorni potremo dedicarci a innescare questo piacere!
Potremmo, per esempio, cercare di capire con i ragazzi il presente che stiamo vivendo, riflettendo insieme (a qualsiasi livello di età) su cosa è accaduto quest’anno, su cosa ci è piombato addosso, sui cambiamenti che abbiamo dovuto accettare sulla nostra quotidianità, sul fatto che niente sarà più come prima, neanche a livello della nostra routine. Confrontarsi su come è cambiata la vita di ognuno di noi, cosa ci è mancato di più, come sarà la scuola del domani, come studieremo, come cambierà il lavoro, cosa posso fare io per ridurre i danni provocati dalla pandemia, come posso essere d’aiuto a chi sta peggio di me, ecc.
Insomma non possiamo, a mio avviso, presi come siamo dall’idea dell’incalzare del programma scolastico (che non esiste più), fare finta che non sia successo niente; non possiamo non prendere consapevolezza insieme che siamo nel pieno di un cambiamento storico-culturale, di una trasformazione a tutti i livelli dell’esistenza.
Parlare di questo “è fare cultura”. La cultura è quello che facciamo adesso, ogni giorno. È questo che ci forma una mente riflettente, attiva, creativa e critica, che ci rende persone per bene e cittadini responsabili. Penso che non ci sia luogo più deputato della scuola per riflettere su questi temi.
Infatti, che occasioni hanno i ragazzi per parlare in modo costruttivo di questa nuova realtà con cui dobbiamo fare i conti; che occasioni hanno per ascoltare opinioni sul tema alla loro portata e per rielaborare la loro esperienza in modo positivo.
Si tratta di apprendere a vivere, che significa anche saper affrontare l’incertezza con le risorse che si hanno a disposizione, mettendole al servizio del bene comune.
Non si può non citare la celebre frase di M. Montaigne “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” (M. Montaigne), ripresa da E. Morin, ovvero una testa che va al di là del sapere delle discipline per approdare ad una mente strategica, capace di risolvere i problemi che si trova davanti e non tanto nell’interesse del singolo ma della comunità, senza mai perdere di vista la salvaguardia dell’ambiente di cui siamo parte e da cui dipende la nostra esistenza.
Penso che ritagliarci il tempo per riflettere sul tempo presente e sulle sue manifestazioni, senza l’assillo delle pagine da studiare, dei compiti da fare, del recupero…, potrebbe essere un “bel programma” sia per i ragazzi che per gli insegnanti. Dopo tanta ansia e stress, anche le menti degli insegnanti avrebbero bisogno di aprirsi di più a quella che Bateson chiama “ecologia delle idee”.
Daniela Lucia Mario