Dario Nicoli

Quel pomeriggio del 15 maggio, in un istituto comprensivo statale della periferia di Milano era in corso il collegio dei docenti. Qualcuno ha detto “è una fumata bianca!”. Immediatamente tutti i partecipanti si sono alzati in piedi, in silenzio. Un gesto sorprendente, innanzitutto per il dirigente che non sapeva come gestirlo, trovandosi di fronte ad un evento estraneo ai suoi compiti.

Quel gesto, simile a tanti altri accaduti in quel momento, è un segno di riconoscimento per una persona in grado di riempire il vuoto lasciato dalla morte di Papa Francesco, una figura che ha saputo entrare nel cuore di molti. Un gesto, però, accaduto pubblicamente, pur in assenza di parole e segni appropriati ad un evento di natura religiosa che, per convenzione, avrebbe dovuto essere riservato ai soli credenti.

La rottura della barriera tanto cara alla cultura laica è potuta accadere perché espressa da un popolo smarrito, scosso dalla concomitanza di diversi traumi: la sofferenza inedita diffusa tra molti adolescenti e giovani, i tanti omicidi ed in specie femminicidi, la sfiducia verso un modello di sviluppo autodistruttivo, le guerre insensate scoppiate in diverse parti del mondo, tutto ciò unito dalla coscienza dell’inadeguatezza, o addirittura dalla colpa, di molti potenti. È la letale mistura che fa di quello odierno un popolo atterrito dal vuoto di riferimenti su cui poter trarre protezione per il tempo presente e sicurezza per il futuro.

La morte di papa Francesco e l’elezione di papa Leone XIV alla cattedra di San Pietro hanno acquisito un significato universale: il primo con il suo metodo diretto, imprevedibile e talvolta fuori dalle righe ha voluto scuotere la Chiesa, ed il mondo, storditi dall’improvviso crollo di un ordine da tempo traballante, perché collocato sull’orlo del vuoto, dandogli un nome terribile: “terza guerra mondiale a pezzi”. Egli ha reso esplicita la catastrofe incombente sull’umanità, assimilandola ad un ospedale da campo piuttosto che ad un ambiente in cui poter vivere umanamente.

Papa Leone all’inizio del suo pontificato ha indicato la speranza per questa umanità smarrita: “La pace sia con tutti voi! Questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra. La pace sia con voi!”

Egli stesso ha voluto chiarire il senso del suo pontificato: “Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore; vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia.”

Facendo sue le parole di Sant’Agostino, secondo cui «la Chiesa consta di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli e che amano il prossimo», il nuovo papa si rivolge a tutti, esprimendo il suo grande desiderio: “una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato. In questo nostro tempo, vediamo ancora troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri. E noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità. Noi vogliamo dire al mondo, con umiltà e con gioia: guardate a Cristo! Avvicinatevi a Lui! Accogliete la sua Parola che illumina e consola! Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo siamo uno”.

Non ha detto che la Chiesa è per i perfetti, o presunti tali, ma ha ricordato che il ministero di Pietro è quello di essere servus servorum Dei: “la Chiesa di Roma presiede nella carità e la sua vera autorità è la carità di Cristo”. Essa è chiamata “sempre e solo ad amare come ha fatto Gesù”.

Nel grande disorientamento di questo tragico tempo, Papa Leone invita tutti a riconoscere in loro stessi l’amore di Dio di cui siamo costituiti e di cui abbiamo sete, una sete che si fa più ardente quando la certezza nell’opera umana traballa miseramente. 

L’uomo non è autosufficiente, non si salva con le sue misere forze. La virtù della speranza scaturisce da una fede provata dal dolore delle ferite, sollevando la testa dalle forze distruttive che ci scuotono: l’attrazione per ciò che è negativo, lo scetticismo, la rabbia, l’angoscia provocata dalla coscienza del male nel mondo di cui riconosciamo i segni anche dentro di noi.

Non è sorprendente, e per nulla scontato, il suo appello all’uomo proiettato verso l’eternità, ma invischiato drammaticamente nell’incapacità di procurarsi da sé la salvezza: “Questa è l’ora dell’amore! La carità di Dio che ci rende fratelli tra di noi è il cuore del Vangelo.”

La vita in comune, la fratellanza, la dedizione al bene, sono i segni di questa speranza di cui ha sete l’umanità.

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