Siamo qui!

Dove mi trovo? È la classica domanda basica. Domanda fondamentale per l’orientamento. Per decidere il passo successivo. La risposta richiede delle coordinate. Larghezza: economia; altezza: politica; profondità: religione. La mappa che ne risulta mostra una diffusa “fragilità planetaria”. Una situazione di generale liquidità. Soltanto mezzo secolo fa il panorama appariva molto più semplice e strutturato. La democrazia sembrava avere un futuro garantito in un contesto di inarrestabile “sviluppo progressivo universale”. Sicuramente questo quadro è totalmente cambiato. Fenomeni come la prepotente crescita dell’influenza islamica e di una visione premoderna / teocratica o confessionale dello stato, l’incremento delle forme di “democrazia illiberale” a partire da una critica, per nulla superficiale, delle democrazie sociali, la sorprendente vitalità economica e politica del totalitarismo cinese, mostrano chiaramente come i tempi siano profondamente mutati. Sicuramente ciascuno di questi recenti sviluppi presenta delle crepe. In Russia e Turchia il consenso ai rispettivi governi non è piú così sicuro e/o plebiscitario. La Cina evidenzia debolezze sul fronte motivazionale. Una crisi di senso che potrebbe, a breve, minarne alle basi l’attuale forza economica e politica ecc. ecc.. Di questo passo il discorso potrebbe continuare senza tuttavia scalfire il dato di fondo: la crescente debolezza dell’occidente liberale – democratico – sociale nel nuovo contesto internazionale. Un fatto, questo, ben rappresentato dalle progressive incertezze e dal complessivo affievolimento del processo di integrazione europea.

La mappa non è il territorio e una mappa troppo definita, troppo complicata e prossima al territorio, sarebbe probabilmente del tutto inutile al “navigatore”. Partire da una anatomia essenziale dell’economia, del sistema politico e dalla visione religiosa in un’ottica circolare non materialista nè spiritualista o volontaristica, ha forse il merito impagabile di favorire la costruzione di modelli che riescono ad essere semplici senza essere semplicistici. Modelli che consentano di cogliere chiaramente la strada, senza perdersi nella miriade frammentaria di dettagli tanto marginali quanto depistanti verso i quali, con sempre maggiore forza, sembra spingersi l’attuale confronto. Un confronto, non per caso, più rivolto alla tattica e al breve periodo piuttosto che alla strategia e al lungo periodo. Quali sono stati e quali sono, nel bene e nel male, i frutti della globalizzazione e della crescente innovazione scientifica e tecnologica? Quali le forme politiche incentivate dai processi economici dominanti? In che modo le forme politiche stanno retroagendo sull’economia? Come processi economici e politici si riflettono nei cambiamenti dello spirito (principalmente sull’idea di rapporto uomo – Dio – mondo) e in che modo, questi ultimi, esercitano un feedback sostanziale su ogni altro aspetto della nostra vita? Focalizzarsi su queste questioni per il tempo necessario a coglierne, tramite il dialogo e un confronto aperto e sobrio, il significato profondo, potrebbe forse rappresentare, in contrasto con la velocità e la superficialità dominanti la routine quotidiana, il genere di azzardo utile per giungere ad individuare qualche pietra miliare in più.

Se questi sono dunque i frammenti di una mappa ancora tutta da definire, qual è la nostra posizione? dov’è il “punto rosso” che indica dove ci troviamo? Alcuni sintomi sembrerebbero chiari. Siamo nel mezzo di una triplice crisi. Una crisi economica sintetizzata dal concetto di stagflazione, ovvero da una crescita smisurata dei mezzi monetari cui fa fronte una sostanziale stagnazione dell’economia reale. In altri termini, mentre il sistema monetario si gonfia a dismisura, la ricchezza non solo stenta a crescere, ma, penalizzando gli investimenti sia pubblici sia privati, alimenta consumi e segmenti di PIL sovente carichi di esternalità negative sulla qualità della vita delle persone e sull’ecosistema che dovrà ospitare le generazioni future. Inopinatamente si assiste ad una sorta di riedizione del modello ricardiano classico “dei salari di sussistenza e della caduta tendenziale del saggio di profitto” dettati dalla crescita della rendita quale principale fattore della distribuzione della ricchezza. Una distribuzione che, soffocando sul nascere la concorrenza, nega, con essa, l’apporto creativo, democratico della maggior parte delle persone tramite il proprio lavoro. Sul fronte politico la crisi, ancora più profonda, ha già da diversi anni assunto il volto del cosiddetto “populismo – sovranismo” la cui forza risulta direttamente proporzionale al declino della democrazia rappresentativa che rischia, in assenza di profonde riforme, di tradursi nella crisi della democrazia tout court. Un declino probabilmente inarrestabile che alimenta, in forme sempre più drammatiche, l’opposizione popolo – palazzo (Parlamento) sino ad oggi confinata nell’ambito del confronto verbale, ma che, come la storia insegna, potrebbe rapidamente assumere forme molto più cruente. In altri termini, si annuncia all’orizzonte una specie di tornado politico la cui forza non viene tanto dalla proposta (per nulla originale e probabilmente peggiore della malattia che vorrebbe curare), quanto dalla denuncia di mali veri che le rappresentazioni “politically correct” tendono spesso a sottovalutare depositandole, sistematicamente, sotto il tappeto dell’irrilevanza o, peggio, considerandole più frequentemente frutto del pregiudizio e/o di una presunta “ignoranza reazionaria”. Identità, controllo del territorio, il bisogno di comunità, la paura della solitudine e il bisogno di sicurezza in senso lato non sono, infatti, fattori semplicemente “sociali”. Rappresentano piuttosto una sorta di DNA della nostra specie la cui negazione in chiave culturalista – come ad esempio accade con le teorie del GENDER – rischia di procurarci sorprese molto sgradevoli. Infine la terza crisi, quella più grande di tutte: la crisi dello spirito che può forse riassumersi nella cosiddetta “cura del sè” che diventa, quasi sempre, “cura di se stessi” per trasformarsi, alla fine, nella “cura dell’immagine di sè”. Un SE’ perfettamente emancipato che nel corso dei secoli prima si è liberato del cosmo, poi della comunità e infine del suo stesso “corpo biologico” per fare di tutto questo, una risorsa, l’oggetto di interessi, di bisogni individuali illimitati in quanto fondati sull’esercizio del mero arbitrio di un “soggetto esistenziale” che professa un’identità senza identità. Se il termine “religione” sta a significare legame, non sorprende che l’emergere di un IO tanto emancipato e ammirato della propria pura soggettività ne abbia decretato la “progressiva” ininfluenza gridando orgogliosamente la morte del sacro e la morte di DIO. Sennonchè, sorprendentemente, questo IO “egoistico e trionfatore” sembra mostrare oggi alcuni sintomi del proprio declino. All’estremo del “disincanto del mondo” l’IO, sovrano di se stesso, si riconosce precario, votato al breve periodo, alla rincorsa di emozioni tanto crescenti quanto fatue. Straniero nel mondo, inaridisce tutto quello che incontra per rimanere alla fine preda dell’insicurezza e della paura. Riemerge dunque, da questo abisso di alienazione in cui l’IO si è precipitato, la nostalgia dell’incanto, il desiderio di appartenenza e di cura, di confini e di limiti, di sentirsi parte di un popolo, di una comunità, di una nazione, della natura e non più soltanto un’entità astratta, dispersa nell’infinito che, tra stato e mercato (le uniche realtà che l’individuo riconosce come limiti legittimi della propria libertà), vede ogni giorno crescere soltanto il sentimento della propria solitudine.

Siamo dunque nel bel mezzo di un trivio. Una tempesta si annuncia e, intorno, non sembrano esserci ripari. Solo un vano correre di qua e di là tra vecchie idee e antichi rimedi che non promettono nulla di risolutivo rispetto ad una crisi che si trascina da tempo accumulando vieppiù forza e potenzialità distruttiva. E’ accaduto altre volte nella storia dell’Occidente in generale e, più recentemente, dello stato democratico in particolare. Com’è logico che succeda, se n’è sempre usciti con grandi innovazioni che però, ora, sembrano mancare. L’ultima, quella dello stato democratico sociale – fondata principalmente sul modello keynesiano e sul new deal rooseveltiano – ha letteralmente salvato, in un’ottica riformista profonda, sia la democrazia sia il capitalismo basato sui principi liberali. Ancora oggi, la scuola di pensiero dominante confida nella forza di quelle idee, ma purtroppo, a problemi nuovi, spesso generati proprio dalle passate terapie, non si può rispondere con ricette vetuste. Serve l’invenzione, il coraggio di una svolta, di una nuova sintesi. Sembra essere questa una sorta di “legge generale dell’evoluzione delle forme viventi” cui neppure la crisi che stiamo attraversando riesce a sottrarsi.

Da dove veniamo? Dove andiamo?

Una mappa e la propria posizione al suo interno, non bastano a stabilire la direzione di marcia. Occorre anche chiedersi perchè siamo arrivati sin qui e quale strada, ora, vogliamo prendere. I fattori della crisi che ci hanno portati ad essere, almeno in parte, quello che siamo sono già stati accennati, ma la nostra storia, per quanto piena di errori e di tragedie, non è tutta da buttare. Al contrario, disponiamo di un viatico ancora molto ricco e pieno di potenzialità. Portiamo con noi tesori che ancora confidano sulla nostra libertà e responsabilità al fine di potersi trasferire alle generazioni future. Certo abbiamo dei problemi, stiamo attraversando un momento molto difficile. E’ importante riconoscerlo com’è importante riconoscere una malattia e provarne il dolore. Dobbiamo però anche essere consapevoli che abbiamo ancora frecce al nostro arco e talenti da impegnare nella ricerca di una soluzione.

La storia insegna che quasi sempre le grandi svolte sono state interpretate come un ritorno alla purezza e alla semplicità delle origini, un ritorno alle forme classiche. Un ritorno dell’uguale che però del tutto uguale non è mai salvo che nel mito, nella narrazione collettiva che spinge gli uomini a mobilitarsi. Nel bellissimo film Manhattan (1979), Woody Allen, accasciato sul divano, si esprime così:

“Idea per un racconto sulla gente a Manhattan, che si crea costantemente dei problemi veramente inutili e nevrotici perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali. Ah, ehm… Deve essere ottimistico. Perché vale la pena di vivere? È un’ottima domanda. Be’, ci sono certe cose per cui valga la pena di vivere. Ehm… Per esempio… Ehm… Per me… boh, io direi… il vecchio Groucho Marx per dirne una e… Joe DiMaggio e… secondo movimento della sinfonia Jupiter e… Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues e… i film svedesi naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon BrandoFrank Sinatra… quelle incredibili… mele e pere dipinte da Cézanne… i granchi da Sam Wo… il viso di Tracy… (Isaac)”

Quali sono i nostri motivi? Le basi della nostra residua fiducia? Quali le ragioni per continuare la corsa? Per rialzarci dopo l’ennesima caduta? Cosa contiene il nostro viatico cui poter attingere per proseguire il cammino? Ogni grande cambiamento, l’innovazione necessaria per superare la crisi, impongono l’uscita dagli schemi, dalle routine che incatenano le nostre menti per poter accedere all’originaria totipotenza, al “primitivo perimetro” all’interno del quale sperimentare nuove “ibridazioni generative” da cui ripartire.

Discorrendo in questa maniera, un’immagine affiora alla mente: quella di un esagono con sei idee che ne presidiano i lati formando una sorta di DNA culturale che sta a fondamento di quella che, probabilmente semplificando, potremmo definire “la nostra identità europea e occidentale”.

Alla base dell’esagono l’idea umanistica e, prima ancora, benedettina del lavoro (500 circa d.C.). Un’attitudine che, al pari del linguaggio e della tecnica, caratterizza la nostra specie e che trova nel motto “ora et labora et lege” una perfetta sintesi. Il lavoro autenticamente umano si esprime qui come unità della mano con il cervello orientata al sacro, all’eterno, a ciò che non muore mai. Si può sicuramente ravvisare in questo la profonda radice che si esprime anche all’interno della nostra Costituzione all’art. 1 c. 1 e all’art. 4 c. 2.

art 1 c. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”

art. 4 c. 2: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Un’idea cioè di democrazia inseparabile dal valore del lavoro concepito come il fattore, se non unico sicuramente prevalente, tramite il quale la persona partecipa, porta il proprio contributo, alla “narrazione del popolo in cui si riconosce” prendendosene cura e divenendone parte. Il “lavoro buono” diventa così anche un lavoro costruttivo, come direbbero gli economisti classici, produttivo di sovrappiù cui attingere “per un futuro migliore” e una ricchezza generale più grande e più vera.

Se alla base dell’esagono sta il lavoro, ai lati in basso stanno persona e comunità. Due concetti che si specchiano l’uno nell’altro poiché non c’è persona senza comunità e viceversa. Due idee fondamentali per la storia della nostra civiltà che ha inteso separare, sin dal 313 d.C. (Editto di Costantino sulla tolleranza religiosa), l’autorità dello Stato, dall’educazione della persona creando così un’enclave degli affetti e delle relazioni primarie, separata dalla politica e dal diritto e destinata a costituire un autentico presidio di libertà non individualistica, non atomistica, non poggiante su un “anarchismo esistenziale” tanto triste quanto impotente.

Dalla parte inferiore, procedendo a quella superiore dell’esagono si incontra gli elementi “più sociali”. Sul lato adiacente alla persona, in continuità con la stessa, si posiziona l’istruzione e la formazione mentre, sul lato opposto, si colloca lo Stato di Diritto. In altre parole la storia moderna, europea e occidentale, degli ultimi 500 anni all’incirca caratterizzata dall’emergere prepotente della ragione e della tecnica. Uno sviluppo questo che si collega ai corrispondenti, irrinunciabili concetti di cittadinanza e di uno Stato, per così dire, “ribaltato”: non più sovrano assoluto che si giustifica da sé medesimo, bensì un costrutto razionale il cui potere politico si legittima unicamente con la sua capacità di porsi “a tutela” / “al servizio” dei diritti della persona e della comunità sanciti, “al di sopra dello Stato”, tramite la carta costituzionale.

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …..”.

L’art. 2 della Costituzione esprime probabilmente la migliore sintesi del rapporto intimo intercorrente tra  persona, comunità e stato di diritto.

Infine, il lato superiore dell’esagono, la chiave di volta che chiude e tiene insieme l’ordine delle idee elementari sin qui esposte: la bellezza. Un fattore, questo, quasi sicuramente più universale e, pertanto, non singolarmente connesso alla peculiarità della nostra storia all’interno della quale, la dimensione contemplativa, pure presente, è rimasta però un tratto prevalentemente “recessivo” del nostro patrimonio culturale. Al centro, soprattutto a partire dal ‘500, resta l’idea baconiana e, prima ancora, l’interpretazione biblica che sanciscono il dominio dell’uomo sulla natura. Un’idea cioè di padronanza che, escludendo la “natura” dal sacro, la rende automaticamente risorsa disponibile riducendo la conoscenza del mondo alla tecnologia: la nuova soteriologia (dottrina della salvezza). Alcuni, si spera solo in senso provocatorio, sostengono che, siccome la bellezza è intesa in modo molto diverso nelle differenti lingue, allora non esiste. Come dire che se una cosa non si conosce, non esiste. Meglio: come dire che se di un’entità si hanno diverse nozioni, allora quell’entità non esiste. Conclusione: non esiste il mistero, non esiste Dio e non esiste neppure la realtà. Andando quindi un tantino oltre queste affermazioni buone per i talk show, occorre comunque ammettere che sì, in effetti della bellezza si possono avere concetti alquanto diversi. Se, di noma, la bellezza è intesa come incanto – come il riconoscimento di una corrispondenza all’interno di una realtà maggiore e più grande in cui soggetto e oggetto si incontrano, ciascuno parte necessaria di una totalità – altri, paradossalmente, potrebbe riferire la bellezza unicamente a se stesso scoprendo, nel proprio abisso, la magnificenza di una vertigine. Ecco dunque come l’idea possa divenire l’oggetto di una competizione tra diverse scuole di pensiero. Una competizione che evidenzia, probabilmente, un conflitto più profondo che attraversa tutte le dimensioni, da quella economica e sociale a quella politica e religiosa.

Trattandosi quindi di un concetto tanto controverso, serve una “scelta apriori” che possa fornire un’idea più precisa della chiave di volta di cui si sta trattando. Tra le molteplici esperienze di bellezza, l’opzione è quella dell’esperienza intuitiva di un “bel paesaggio”. Un’esperienza di bello fatta non da un turista, da uno straniero, ma da chi ci vive oppure, per un qualche motivo, si sente comunque parte di quel paesaggio. Chi non ha fatto almeno una volta un’esperienza del genere nella propria vita? Un’esperienza capace di restituire la percezione di una legame tanto vitale quanto ancestrale tra l’uomo e il mondo. Un’esperienza irriducibile al solo mondo o al solo uomo, ma che nasce dall’incontro di tutto il nostro essere con quanto, grazie al bello, sentiamo ci corrisponda profondamente. Un’esperienza che ci trascende nel medesimo momento in cui sentiamo che ci riguarda da vicino includendoci come parte di sè. Se ora, a questa esperienza, proviamo a sovrapporre altre due mappe, quella del buono e quella del giusto, nella parte residuale sovrapporta che associa il bello al buono e al giusto, quel che resta è l’esperienza significativa, ovvero l’esperienza del sacro. Di una realtà necessaria, suprema e meravigliosa che di tanto in tanto ci capita di cogliere e che ci suggerisce sommessamente che no, non siamo padroni, ma custodi del bel paesaggio che stiamo contemplando. Ci suggerisce che forse siamo in errore. Vittime di un apparente paradosso. Pensando di controllare il senso delle cose, lo perdiamo. Misconoscendo il legame alla ricerca della libertà assoluta, finiamo solo con l’annichilire noi stessi.

Vararo, 15 settembre 2019

Bruno e Dario